L'ultima neve di primavera
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L’ultima neve di primavera

Dottor aneddoto

di Emilio Merletti

 

«Pasquale, devi promettermelo solennemente!»

«No! Dottore, se prometto, prometto!»

Pasquale era un brav’uomo.

Faceva il postino in un paese sperduto tra i monti d’Abruzzo e somigliava ad un gufo quando spalancava gli occhi allarmato, oppure ad un totem indiano, quando era sereno e i suoi lineamenti legnosi si distendevano donandogli una solennità essenziale e un po’ ‘naive’.

Aveva il vizio di esordire sempre con un secco «No!» ogni volta che ti rispondeva.

Ma questo era un vizio per modo di dire.

Il suo vero vizio era il bere.

E questo stava diventando devastante.

Non c’era una scusa valida per spiegare il perché di quel vizio, se quella di fare il postino in un paese sperduto tra i monti d’Abruzzo e non avere a quarantacinque anni altra prospettiva per il futuro non possa essere già  invocata come sacrosanta giustificazione.

Ma tant’è, ogni morte ha la sua scusa!

La vecchia madre me ne parlava a voce bassa, e tenendo lo sguardo anch’esso basso, come fa chi confessa una vergogna. Con le mani poggiate sulle ginocchia, la schiena dritta contro una sedia impagliata della cucina, il naso aquilino, i capelli neri e lisci con la scriminatura nel mezzo della testa, sembrava anche lei un totem.

«Un fiasco al giorno non gli basta. In casa. E poi la sera va all’osteria e quando torna non si regge in piedi, non riesce neanche a parlare».

Col vecchio medico condotto avevano provato anche a somministrargli il Disulfiram a sua insaputa, sciogliendolo nella minestra, ma lui se ne era accorto ed era diventato furioso, sospettoso, cattivo anche con sua madre.

«Pasquale, dì la verità, hai bevuto un po’ troppo anche ieri, è vero?»

«No! Dottore, solo un bicchiere a cena!»

 «Un bicchiere soltanto. Lo potresti giurare?»

«No! Dottore, lo giuro!»

Mi guardava allarmato, col suo sguardo da gufo. Le sclere rossastre ed acquose.

«Dai Pasquale, stendi le braccia, piega all’insù le mani e allarga le dita».

Delle asterissi piuttosto evidenti mi confermarono che il ‘vizio’ aveva iniziato ad interessare l’encefalo. Palpai un margine inferiore del fegato di consistenza aumentata e debordante dall’arco costale di un paio di dita trasverse. Riuscii a farmi promettere almeno che avrebbe fatto al più presto gli esami di laboratorio e l’eco addome che gli avevo prescritto.

«No! Dottore, faccio tutto quello che mi ordini!»

Dopo un paio di settimane ecco Pasquale di ritorno in studio con i suoi esami. L’eco mostrava un fegato a struttura finemente disomogenea con tralci fibro-cicatriziali, margine inferiore di aspetto ‘seghettato’ ed ipertrofia del lobo caudato, iniziale splenomegalia e una vena porta di diametro aumentato (13mm). Era presente inoltre una lieve quota di versamento libero in cavità addominale.

Le transaminasi e gli indici di colestasi (AST 95, ALT 89, GGT 100) modicamente alterati, l’albuminemia piuttosto bassa (2,53 g/dl) a fronte di un’ipergammaglobulinemia (2.60 g/dl). E poi c’era l’ammonio che cominciava a salire, come temevo. Era 95 micr./dl.

La cirrosi di Pasquale iniziava evidentemente a scompensarsi.

Gli prescrissi antagonisti dell’aldosterone, rifaximina e lattulosio: la solita trafila farmacologica destinata a subire la penosa altalena di dosaggi caratteristica di questa malattia, ma soprattutto gli parlai molto chiaramente della gravità del suo quadro clinico.

«Pasquale, se non smetti di bere subito e completamente tu muori in pochissimo tempo».

«No! Dottore, lo so! »

«Non sto scherzando, Pasquale, devi promettermelo solennemente!»

«No! Dottore, se prometto, prometto!»

Passò del tempo. Gli esami andarono di male in peggio. L’albumina scendeva, l’ammonio saliva, iniziai a indovinare l’esordio di quel brutto processo che dispaia le membra finché ‘l viso non risponde a la ventraia.

La madre di Pasquale mi assicurava, piangendo in silenzio, che suo figlio continuava a rimanere astemio. «Questa volta è stato di parola. Non tocca più un goccio di vino da quando lei glielo ha ordinato, povero figlio mio. Si vede che ormai il danno era fatto!»

E così passò ancora del tempo.

Un giorno, era ormai primavera inoltrata, la neve inaspettatamente aveva coperto durante la notte tutto il paese ed i monti intorno. E continuava a cadere abbondante ancora in tarda mattinata quando, interrompendo il giro delle visite domiciliari, decisi di fermarmi a prendere un caffè. Entrai nel vecchio bar del paese, e il campanello sollecitato dall’apertura della porta richiamò l’attenzione dell’unico avventore presente al bancone, il quale si voltò lentamente.

Lo sguardo di un piccolo gufo arruffato e sofferente si fissò su di me con uno scatto improvviso, cui seguì un lungo istante di completo silenzio, di assoluta immobilità. Pasquale, o ciò che rimaneva di lui, se ne stava fermo in mezzo alla sala. Nella mano tremante un bicchiere colmo della sua amata ‘Sambuca’, il mignolo appena sollevato. Poi all’improvviso si scosse, distese un poco le penne scoprendo un collo esageratamente sottile e spalancò ancor più i grandi occhi.

«No! Dottore… Fiocca!Tocca bere!»

Sorrisi. Ordinai il mio caffè e fianco a fianco, in silenzio, ci godemmo dalla finestra del locale lo spettacolo di quella nevicata stupenda.

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