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Complicato o complesso?

Facciamo progressi

di Mario Gentili

Un minuto è più lungo se si ha una mano sul fornello del gas o se si sta assaporando una buona cioccolata calda ascoltando buona musica?

La lunghezza del minuto è sempre la stessa, ma il nostro cervello riesce ad attribuirgli ampiezze diverse. Il problema quindi non è quanto sia lungo il minuto, ma il contesto in cui caliamo il “minuto” oggetto della nostra valutazione.

Partendo da questa banale considerazione, ci accorgiamo che l’indeterminatezza di concetti assoluti quali quelli del tempo e dello spazio, è proprio alla base di ciò che è umano e della nostra interpretazione della realtà, sia sotto il profilo biologico, sia sotto il profilo fisico descrittivo.

Il significativo passo avanti che agli inizi della seconda metà del Novecento si è avuto nel campo delle Scienze ha origine proprio da quello che sembrava essere un problema: la crisi della spiegazione semplice, l’incapacità di raggiungere l’ordine del determinismo a cui la fisica newtoniana e la matematica aristotelica ci avevano abituato per millenni.

Il modello di riferimento è stato per secoli la scomposizione di un problema complicato nelle sue parti più semplici per poterne acquisire la completa comprensione. Questo paradigma, è la base del riduzionismo, a noi ben noto fin da quando giocavamo con il meccano o con il Lego, e permette di confrontarci con successo con i cosiddetti sistemi “complicati”. Ma i modelli complicati non ci permettono di descrivere completamente la nostra vita di tutti i giorni. Usando una metafora molto in uso nel campo dell’Intelligenza Artificiale (AI), se ci troviamo all’interno di un mercato rionale, mai e poi mai possiamo studiarne i flussi, le abitudini, le preferenze; mai e poi mai possiamo prevedere se la domenica ci sarà più gente del lunedì. Per avere questo tipo di informazione, dobbiamo “stare in terrazza”, dobbiamo osservare dall’alto quello che succede nel mercato, dobbiamo cioè costruirne il nostro “meta-modello” che include il modello primordiale e ne descrive nuove ed inaspettate proprietà (lo sanno bene i proprietari dei supermercati che mettono le caramelle e le lamette da barba vicino alle casse …).

È con questo nuovo punto di vista che inizia una vera e propria rivoluzione copernicana all’interno dei salotti scientifici: ci si comincia a chiedere: “… e se la soluzione fosse proprio il problema?”.

Einstein dimostra i principi della relatività della Fisica.  Il logico matematico Kurt Gödel, con i suoi teoremi dell’incompletezza, riesce a dimostrare scientificamente il paradosso del mentitore[1] facendo decadere il principio millenario aristotelico del terzo escluso tertium non datur e dando piena dignità alla impossibilità per una scienza di essere coerente all’interno delle sue regole e dei suoi assiomi. In altre parole, non è mai possibile giungere a definire la lista completa degli assiomi che permetta di dimostrare tutte le verità.

La continua ricerca della verità comincia a fare i conti con la complessità, con l’indeterminazione, con l’apparente caos. Nasce l’esigenza di cercare relazioni tra le diverse scienze e tecnologie che permettano di superare i limiti propri insiti nella singola scienza: si comincia così a lavorare alacremente al concetto di meta-scienza.

La prima consapevolezza di cui bisogna prendere atto è quella dell’irriducibilità del caso o del disordine, ai più noto grazie agli studi sul calore, che è agitazione, collisione, dispersione di atomi o di molecole, è proseguito con l’irruzione delle indeterminazioni microfisiche, e infine con l’esplosione originaria e con la dispersione del cosmo ora in atto.

In campo sociale, Gregory Bateson introduce il suo metodo olistico, volto ad individuare le connessioni esistenti tra fenomeni apparentemente diversi e scollegati come la struttura delle foglie, la grammatica di una frase, la simmetria bilaterale di un animale, la corsa agli armamenti, etc. Questa nuova epistemologia, basata sulla cibernetica, è definita da Bateson ecologia delle idee. L’ecologia delle idee è orientata allo studio dei sistemi evolutivi. L’evoluzione è considerata come un processo conservativo volto ad assicurare la sopravvivenza del sistema. Questi sistemi sono reti cibernetiche complesse, anelli collegati da una catena di processi causali.

Da quanto sopra, è chiaro quindi che la visione di complessità suggerisce un approccio al problema della conoscenza radicalmente diverso da quello tradizionale ed è la sfida che l’IA, o meglio, la tecnologia delle machine learning sta affrontando non senza difficoltà.

Ma cos’è la complessità? È bene rispondere con le parole di uno dei principali apostoli viventi di questo modus operandi, Edgar Morin: […] se si potesse definire la complessità in maniera chiara, ne verrebbe evidentemente che il termine non sarebbe più complesso[2]. La complessità in sé stessa non è una teoria e forse neppure un paradigma definito, è piuttosto l’esigenza di utilizzare strategie di pensiero multi-dimensionali, un ambiente concettuale che si basa sulla necessità di un utilizzo dinamico di modelli diversi per connettere a vari livelli teorie, dati, problemi e significati.

Il passaggio da un’assenza di informazioni ai Big Data, sovrabbondanza di informazioni tali da poter generare automaticamente anche fake news e romanzi, le machine learning rappresentano uno strumento utile per migliorare il sistema della conoscenza umana.

È ormai noto che le scienze cognitive non si occupano soltanto di studiare i meccanismi cognitivi della mente, ma pongono particolare attenzione al concetto di adattamento che è cruciale per la conoscenza dell’evoluzione naturale della specie e dei sistemi complessi reali. Per questo motivo, fanno parte a pieno titolo delle scienze cognitive, lo studio di algoritmi genetici, di sistemi di classificazione, di sistemi di predizione, ma soprattutto, sistemi di simulazione basati su agenti: i cosiddetti sistemi complessi adattivi artificiali sui quali si basa la più moderna tecnologia in settori pervasivi come la medicina, l’Internet delle cose e la sociologia.

[1] Il paradosso ha origini radicate nella storia. Ne esistono diverse versioni, la più accreditata è quella del filosofo Eubulide di Mileto (IV secolo a.C.) che affermava: “io sto mentendo”. Se mentre faccio questa affermazione mento, allora dico la verità, se, di contro dico la verità, allora mento.

[2] E. Morin, La sfida della complessità, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1994

 

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