Riflessioni di un medico di medicina generale al tempo del coronavirus
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Riflessioni di un medico di medicina generale al tempo del coronavirus

 

di Italo Gionangeli Sebasti

 

 

 

È trascorso ormai più di un mese dall’inizio dell’epidemia sostenuta da un virus del tipo Coronavirus ed è già tempo di bilanci e riflessioni sullo stravolgimento che tale fenomeno ha apportato alle nostre vite professionali e personali.

E la prima riflessione è proprio sulla percezione interna del tempo.

Chi può dire che una giornata passata nel corso della quarantena ha la stessa valenza psicologica e di durata di quella a cui eravamo abituati?

La maggiore disponibilità di tempo ci costringe a fare i conti con stati interni della psiche a cui non eravamo abituati e che ci mette di fronte improvvisamente e coercitivamente a stati mentali profondi che non siamo abituati a fronteggiare.

E ci dovremo subito chiedere quale impatto essa avrà sulla salute non solo mentale ma anche corporea. Cercherò di ipotizzare qualche risposta più sotto, soprattutto dall’ottica del Medico di Medicina Generale, che in questi giorni è impegnato in prima linea nella lotta al virus.

Da qualche anno la maggior parte dei MMG sono organizzati in studi associati con più medici che ricevono contemporaneamente creando un grande affollamento nelle sale d’aspetto.

Chiaramente, è completamente cambiato il nostro modo di operare: sia a livello pratico, organizzando i nostri studi in modo da rispettare le direttive delle autorità sanitarie, sia dal punto di vista professionale, indirizzando la nostra attenzione quasi unicamente alla tematica epidemica, sebbene non siano sparite le esigenze che i nostri assistiti ci presentavano fino ad un mese fa.

La nostra presenza in studio è totale e ognuno di noi supporta nel modo migliore tutti coloro che ci presentano problematiche legate al momento e alla propria condizione clinica pregressa, che come è noto era principalmente rivolta alle problematiche croniche come diabete, ipertensione, BPCO.

Per lo più si verifica che gli interventi richiesti sono relativi all’urgenza e sono molto ridotte le visite e i controlli per le patologie che eravamo abituati a trattare (patologie croniche, appunto).

La preoccupazione, cioè, si riversa per intero nelle acuzie e genera quella PAURA che è, a mio avviso, la vera condizione morbosa presente in tutta la popolazione in questo momento con cui dovremo fare i conti anche nelle fasi successive della epidemia.

È sintomatico che ciò accada anche nelle condizioni come quella della nostra cittadina in cui non si ha una grande incidenza di positività (sono segnalati finora una ventina di casi, di cui uno solo deceduto con patologie pregresse e un altro in via di accertamento).

Dovremo quindi occuparci da ora in poi di una condizione fortemente condizionata dalla paura e dalla fragilità, dal fatto che le persone hanno scoperto che ci si può ammalare facilmente di malattie senza cura (finora si era nell’illusione che TUTTO potesse essere curato) e questo ci getta in una condizione incontrollata a cui diamo il nome di ‘angoscia’.

La preoccupazione si rivolge soprattutto ai momenti successivi alla epidemia quando le riserve psicologiche saranno esaurite e si dovranno trovare risorse alternative con strategie nuove a quelle usate nel – recente – passato.

E questo dovrà essere rivolto anche al personale sanitario che si sta occupando di arginare il propagarsi dell’epidemia e che dovrà essere supportato sul piano psicologico con molta attenzione (si veda a proposito l’articolo sul Trauma Secondario del Prof. V. Lingiardi dell’Università La Sapienza di Roma, apparso sul quotidiano Repubblica il 3 aprile).

Sono convinto, insieme ai miei colleghi con i quali i momenti di confronto sono numerosi, che la nostra professione dovrà essere rimodulata nel senso di una maggiore attenzione agli stati interni dei pazienti, soprattutto di quelli più fragili anche socialmente, che, oltre al dolore della patologia organica, si porterà dietro il peso di una fragilità sconosciuta fino ad allora e di un senso di incertezza che potrebbe dare a noi medici un’arma terapeutica nuova, poiché il paziente la condivide con noi.

Potrebbe essere questa condizione una possibilità di una nuova empatia da stabilire con i nostri assistiti che è sempre condizione necessaria per creare quella alleanza terapeutica che ci permette di curare meglio e pertanto con più efficacia e che istituisce un rapporto finalmente simmetrico.

Il Medico di Medicina Generale ha un compito specifico in tal senso, avendo la possibilità di definire un rapporto particolare con i propri assistiti data l’intimità che, effettuando visite domiciliari sistematicamente e occupandosi di loro sovente per una vita intera, si viene naturalmente a costituire.

Si potrebbe lavorare sulla nuova fragilità che si è venuta a creare e che, in quanto condivisa, potrebbe generare nuove energie da opporre alle patologie incipienti. Fragilità che potrebbe costituire un fattore di rischio essa stessa.

Dovremmo perciò avvicinarci ai nostri pazienti con una modalità nuova che tiene conto della nuova condizione profonda che si è venuta a formare. E tornare a curare con attenzione e con rinnovata metodologia (come raccomanda nel corso di formazione La cura della cronicità deve proseguire la SIMG) le patologie croniche.

Tali affermazioni sono rivolte particolarmente ai soggetti in età avanzata ma non solo.

È esperienza comune che in questi giorni emergano numerose situazioni di persone che presentano sofferenza psicologica anche di età giovanile e adulta.

Vorrei pertanto sottolineare come per affrontare la sfida che abbiamo davanti dovremo costruire un modo nuovo che tenga conto della nuova condizione profonda che si è venuta a costituire.

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