Le belle addormentate della ricerca scientifica
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Le belle addormentate della ricerca scientifica

Sua Sanità Pubblica

di Carlo De Luca

Alcune scoperte scientifiche, anche di grande rilevanza, rimangono misconosciute per anni. In passato questo si verificava essenzialmente perché le informazioni rimanevano circoscritte in ambienti troppo angusti per poter entrare nella pratica clinica. È nota la vicenda dello scorbuto. Nel 1601 James Lancaster dimostrò che il succo di limone era in grado di prevenire la malattia ma fu solo nel 1747 che James Lind ripeté l’esperimento. Solo nel 1795 la marina militare britannica adottò sistematicamente la misura di portare limoni sulle navi per evitare che i marinai si ammalassero e la marina mercantile attese addirittura sino al 1865. Trascorsero dunque oltre due secoli e mezzo prima che fosse definitivamente adottata una strategia semplice e sicuramente efficace nel prevenire e curare una malattia grave e con alta letalità.

La scarsa circolazione delle osservazioni è stato un fattore limitante lo sviluppo scientifico certamente per lungo tempo. Di recente invece si è potuta accertare la reale operatività del meccanismo opposto: la scoperta importante rischia oggi di essere sovrastata da un turbinio di informazioni inutili, ininfluenti o addirittura erronee. Basti pensare che dalla dimostrazione dell’efficacia della trombolisi nell’infarto del miocardio alla sua  raccomandazione clinica in quelli che sono ancora oggi i testi più importanti di Medicina, trascorsero ben tredici anni.

Nel 2004 lo studioso olandese van Raan ha coniato il termine di ‘sleeping beauties’ – belle addormentate – per definire le ricerche scientifiche che, ignorate per lungo tempo, improvvisamente riscuotono successo (così come esso può essere misurato dal grande numero di citazioni da parte di altri autori). Avvalendosi di tecniche bibliometriche, egli ne definì anche alcune caratteristiche – profondità e durata del sonno, intensità del risveglio – e concluse che si trattava di casi abbastanza rari. Di parere diverso i ricercatori italiani Alessandro Flammini, Emilio Ferrara e Filippo Radicchi che, insieme al cinese Quing Ke, hanno pubblicato nel 2015 uno studio dal titolo suggestivo Defining ed identifying sleeping beaties in science. Essi hanno misurato il tempo intercorso tra la pubblicazione della ricerca ed il successo bibliografico in circa 22 milioni di articoli apparsi su riviste scientifiche dal 1896 al 2011 concludendo che le belle addormentate non sono affatto rare.

Le belle addormentate della ricerca scientifica

Elenco delle prime 20 discipline che producono ‘belle addormentate’, tratto da Defining ed identifying sleeping beaties in science

Del fenomeno non sono chiari né i motivi per i quali alcune bellezze cadono in sonno né le ragioni dell’improvviso risveglio. Appartiene alla normalità il fatto che trascorra un certo periodo prima che un’idea si affermi ed anche che, dopo un determinato lasso di tempo, la stessa idea si estingua poiché superata. Si consideri ora la fase di latenza. In ambito scientifico si ritiene che nella maggior parte dei casi il tempo massimo affinché un’idea si diffonda sia di cinque anni. Le belle addormentate sono casi particolari di osservazioni scientifiche rilevanti che per affermarsi hanno impiegato invece diverse decine d’anni. Le ragioni del fenomeno sono ancora in fase studio. Certo è che non è solo questione di eccessiva o limitata circolazione delle idee. Un ulteriore motivo per cui una osservazione scientifica cade in sonno è che il suo contenuto risulta troppo avanzato rispetto al contesto.

È il caso certamente della critica alla fisica quantistica mossa da Einstein e rimasta addormentata per cinquant’anni prima che un principe azzurro, il fisico francese Alain Aspect, la risvegliasse. La vicenda è nota. Nel 1935 Einstein, in compagnia di altri due importanti fisici dell’epoca, Boris Podolsky e Nathan Rosen, pubblica un articolo il cui titolo già lasciava presagire le conclusioni: Can quantum-mechanical description of physical reality be considered complete? Nel testo si affermava che i principi della meccanica quantistica non erano sufficienti  a spiegare alcuni fenomeni ed in particolare l’entanglement tra due particelle appartenenti ad un unico sistema quantistico.

Einstein

Einstein

Per entrare minimamente nel dettaglio della obiezione mossa da Einstein occorre ricordare innanzitutto che l’aspetto forse più peculiare della meccanica quantistica è l’introduzione della funzione d’onda ψ che rappresenta la completa descrizione di uno stato quantistico ma la cui definizione è controversa. La corrente maggioritaria, nota come interpretazione di Copenaghen, attribuisce alla funzione ψ una natura probabilistica e aleatoria sino alla misurazione che è causa del ‘collasso in uno e un solo stato’ (ovvero la variabile assume un valore definito). Un altro aspetto della meccanica quantistica che è decisivo ai fini della comprensione del problema è il fenomeno dell’entanglement ovvero dell’intreccio esistente tra le particelle all’interno di un sistema quantistico. Si supponga ad esempio che da una sorgente venga emessa una coppia di elettroni che occupano uno stato quantistico nel quale il primo può avere spin parallelo all’asse z (+z) e l’altro spin antiparallelo (-z) o viceversa. Nel 1935 Albert Einstein, Boris Podolsky e Nathan Rosen proposero un esperimento teorico allo scopo di dimostrare che la meccanica quantistica fosse una teoria incompleta che celasse variabili ancora sconosciute. I tre fisici partivano dal fenomeno dell’entanglement ovvero dalla relazione di due particelle che costituiscono un sistema unico. Si immagini che da una sorgente scaturisca una coppia di elettroni in sovrapposizione quantistica di due stati (chiamati A e B). Si ipotizzi che i due elettroni, subito dopo l’emissione, vengano separati e che se ne misuri uno trovando in quel momento, si supponga,  lo stato A (ad esempio spin parallelo all’asse z). Essendo il secondo elettrone in relazione di entanglement con il primo, esso non sarà più libero di assumere lo stato A o lo stato B ma il suo stato sarà necessariamente B (quindi spin antiparallelo) e sarà definito istantaneamente nel momento stesso in cui si misura il primo elettrone. Dunque la misura effettuata sul primo elettrone avrebbe un effetto istantaneo sul secondo elettrone a prescindere dalla distanza tra i due violando il principio di localismo: una causa può agire solo se è sufficientemente vicina ovvero quando la velocità di propagazione della sua azione sia finita e al massimo pari a quella della luce. L’esperimento teorico proposto prese il nome di paradosso di EPR. Nell’ipotesi di EPR risultava violato anche il principio di realtà per cui una grandezza fisica esiste con certe caratteristiche a prescindere dalla misurazione (la luna è lassù anche se nessuno la guarda): le caratteristiche della grandezza – ad esempio l’orientamento parallelo o antiparallelo dello spin – non possono dipendere dalla misurazione effettuata in precedenza sull’altro elettrone. Einstein, Podolsky e Rosen consideravano l’azione a distanza assolutamente ‘fantomatica’, ed ipotizzavano che per spiegare il fenomeno si dovevano ammettere delle variabili nascoste ed ancora sconosciute. In altri termini la meccanica quantistica non poteva essere considerata ancora una teoria completa.

L’obiezione di Einstein per lungo tempo rimase sospesa come un enorme punto di domanda. Perché? All’epoca della pubblicazione Einstein è uno scienziato di grande fama avendo già ricevuto il premio Nobel; l’articolo è firmato da altri due autorevoli ricercatori; la rivista, Physical Review, è una delle più prestigiose dell’epoca; l’argomento, la meccanica quantistica, ha già rivoluzionato completamente la fisica. Impensabile dunque che gli altri fisici non ne siano venuti a conoscenza. Eppure, dopo aver ricevuto a distanza di qualche mese una risposta non esaustiva in una pubblicazione di Niels Bohr, le osservazioni di Einstein furono come dimenticate per cinquant’anni. Quale la ragione? Einstein, Podolsky e Rosen proponevano un esperimento teorico il cui esito avrebbe condotto alla conclusione che la fisica quantistica era una teoria incompleta. Per lungo tempo nessuno fu in grado di realizzare un’osservazione che potesse verificarne i risultati nella pratica.

Il momento di svolta si ebbe nel 1982 quando il gruppo francese guidato da Alain Aspect  riuscì a mettere in piedi un esperimento che in qualche modo testava operativamente l’ipotesi di Einstein. Infatti, indirizzando su percorsi opposti una coppia di fotoni prodotta dal decadimento di un atomo di Calcio, Aspect dimostrò che l’inserimento in uno dei due percorsi di un cristallo birifrangente che fosse in grado di deviare il fotone, all’istante determinava la deviazione anche dell’altro fotone che procedeva a distanza su un percorso opposto. Quella che Einstein aveva definito una assurda azione a distanza, era invece realmente operante e le particelle risultano entangled in modo istantaneo per via non locale.

A seguito di questo esperimento, come per incanto, si riaprì il dibattito e l’articolo di Einsten, Podolsky e Rosen iniziò a ricevere migliaia di citazioni. A partire dal 1987 con un massimo nel 1994. La bella addormentata si era finalmente risvegliata. La critica di Einstein, sebbene rivelatasi inesatta, era assolutamente fondata ma così avanzata che per lunghi anni nessuno era riuscito a testarne la veridicità.

Molte sono le belle addormentate in ambito scientifico. Il record spetta alla pubblicazione di un argomento statistico del matematico britannico Karl Pearson, rimasta in sonno addirittura 101 anni – dal 1901 al 2002 – e risvegliatasi attraverso meccanismi che non sono ancora stati chiariti. Poco meno è durato l’addormentamento di una pubblicazione del chimico tedesco Herbert Freundlich apparsa sulla rivista Zeitschrift für Physikalische Chemie nel 1906 e rimasta misconosciuta sino al 2002, quando improvvisamente iniziò a ricevere migliaia di citazioni. Il lavoro sull’inferenza statistica pubblicato da Edwin B. Wilson nel 1927 ricevette un picco di citazioni nel 1999. Molti altri i casi che possono essere citati.

«La morale della fiaba – siega Flammini – è che ogni Sleeping Beauty ha il suo principe azzurro, ma può anche svegliarsi da sola. A volte il principe non è uno solo e a volte è uno straniero, cioè uno studioso di una disciplina diversa da quella del reame dove l’idea è nata». In fondo è una Bella Addormentata anche l’idea di analizzare i casi delle Belle Addormentate. Spiega Flammini: «L’articolo che per primo propose di usare le reti di citazioni come modo di studiare la circolazione delle idee è degli anni Cinquanta. Ma allora non c’erano i computer e la questione si affrontò soltanto in maniera filosofica». Ma oggi le conoscenze scientifiche di tutto il mondo possono essere contenute e catalogate in un database e allora tutto diventa più semplice. Forse.

Se sapessimo esattamente quello che stiamo facendo,
non si chiamerebbe ricerca.


Albert Einstein

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