Il segreto
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Il segreto

Dottor aneddoto

di Emilio Merletti

 

Sembravano l’articolo ‘il’.

Oppure, meglio ancora, sembravano la tazza e il cucchiaio.

Lei, Angelina, sui cinquanta, una donna del posto, semplice, genuina, ingenua anche se con un suo fare di apparente furbizia, era più larga che lunga.

Lui, Juan, pochi anni più della moglie. Spagnolo lui, con un che tra il picaresco e il cavalleresco. Lunghi capelli bianchi e fluenti sempre in disordine, abbigliamento più che ‘casual’, occhi azzurri, mobilissimi, su un viso solcato dal sole e dalla vita.

Un metro e ottantacinque per sessanta chili scarsi.

Parlava un italiano biascicato e veloce, con un forte accento spagnolo.

Però non era una storia di terre lontane. In realtà si erano conosciuti poco distante da dove avevo allora il mio studio.

«Juan è un bravo muratore. Non l’avevo mai visto prima. Lo notai una volta, mentre faceva una riparazione su una terrazza davanti alla mia finestra. E io lo guardavo ogni giorno mentre lavorava sotto il sole. Me ne ero proprio innamorata! Tanto ho detto, tanto ho fatto, mi sono messa in mostra, e alla fine siamo usciti insieme, abbiamo cominciato a chiacchierare di noi…Lui mi ha detto che si era trasferito in Italia perché era proprio affascinato del nostro paese. Sognava di venire a vivere qui fin da quando era ragazzino. Insomma, un bel giorno mi ha chiesto di sposarlo, e io non vedevo l’ora di dirgli di sì! Capirà: avevamo già passato i trenta! Ora abbiamo due ragazzi grandi, che studiano ancora ma speriamo che un giorno possano farsi una posizione migliore della nostra. Della mia e di quella di Juan!»

Diceva ‘Juan’ pronunciandolo ‘Giuann’, e questo stizziva palesemente il marito, che ogni volta mi guardava serio e ripeteva immancabilmente a bassa voce: «Io sono ‘Cuan’ dottore».

Ma al di là di questo dettaglio erano una coppia molto affiatata, come può esserlo una coppia di mezza età dopo venti anni di matrimonio ed un’infinità di vicissitudini, sacrifici e difficoltà di ogni tipo.

«Lavoro ce n’è poco, dottore. E poi posso fare soltanto lavoretti leggeri, da quando ho questi problemi alle mani…»

«Quali problemi, Juan?» «Sì, dottore, io dico ‘le mani’ perché sono loro che mi fanno più male. La mattina non posso piegarle, il dolore mi dura quasi fino all’ora di pranzo! Però non sono solo le mani. Spesso anche i polsi, i gomiti…las rodillas…come dite voi?… le ginocchia».

Diedi una rapida occhiata. Le articolazioni metacarpo falangee e le interfalangee, soprattutto quelle prossimali, apparivano tumefatte in entrambe le mani, e la pressione laterale risvegliava vivo dolore. Ciò che mi aveva colpito di più era quel suo dire che il dolore durava ‘quasi fino all’ora di pranzo’.

«E la schiena ti fa male, Juan?» «No. La schiena non molto. Solo, mi sento debole, con tutti i muscoli indolenziti».

Richiesi una serie di esami di laboratorio, con particolare attenzione agli indici di infiammazione, e i risultati furono: un quadro di anemia incipiente (GR 3.950.000 – Hb 11,5), la VES 45, la PCR 31,5. Ma fu il Reuma test positivo (40.3) a togliermi ogni dubbio: Juan aveva un’artrite reumatoide, nemmeno troppo recente, a giudicare dalla durata mattutina dei dolori. Per completezza richiesi una radiografia delle mani, che confermò i miei sospetti: le articolazioni metacarpo falange presentavano un’evidente riduzione degli spazi articolari e un assottigliamento delle lamine ossee sub condrali.

Inviai Juan dal reumatologo, che confermò il mio sospetto diagnostico.

Allora andava molto di moda un farmaco a base di derivati dell’oro, e Juan iniziò la cura associando anche cicli con cortisone e con FANS. Più tardi si aggiunse anche il Methotrexate alla dose di 7,5 mg. la settimana.

Ad ogni modo l’artrite di Juan peggiorava. Le mani cominciavano ad assumere l’aspetto ‘a colpo di vento’, le dita quello ‘a collo di cigno’, e di conseguenza le condizioni economiche della famiglia andavano assumendo un aspetto drammatico.

Non sapevo come aiutarli. Del resto il rapporto medico-paziente in Medicina Generale non è solo clinico, ma di tipo bio-psico-sociale, come viene definito anche nelle dichiarazioni internazionali (Alma Ata 1978, WONCA Europe 2007 ecc.).

Così un giorno dissi a Juan: «Senti, se vuoi ti preparo la domanda per farti ottenere l’invalidità civile. Avresti un sussidio…»

 «No dottore – mi rispose – grazie, ma io non sono cittadino italiano».

A quel tempo non c’erano ancora le convenzioni legate all’Unione Europea, e Juan aveva ragione: come cittadino straniero, non poteva ottenere questo riconoscimento. Ma chissà perché non aveva mai chiesto la cittadinanza, dopo tanti anni in Italia…

«Allora fai una cosa, Juan. Vai all’Ambasciata di Spagna…» «No!!! A la Embajada no!…No puedo …»

Al suono della parola ‘Ambasciata’ si era d’un tratto allarmato, si era alzato in piedi davanti alla mia scrivania, e guardava nel vuoto. L’emozione non gli permetteva nemmeno di esprimersi in italiano.

«E perché mai non puoi, Juan? Vedrai che loro troveranno il modo…»

«No puedo…porque me buscan…»

«Che vuoi dire Juan? Ti cercano…Perché?»

Mi guardò fisso negli occhi, e quello che mi disse – lo penso ancora a distanza di tanti anni da quell’ultima volta che lo vidi, prima che con la famiglia si trasferisse chissà dove – era un segreto del quale nemmeno sua moglie era a conoscenza.

«Me buscan…por la matanza de un hombre!»

Ho provato. Ho fallito. Non importa.
Proverò ancora, fallirò meglio.


Samuel Beckett

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