Il Crocifisso e l'infarto
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Il Crocifisso e l’infarto

di Andrea Marcheselli

 

Che un cittadino romano sia legato, è un misfatto; che sia percosso è un delitto; che sia ucciso, è quasi un parricidio; che dirò dunque, se è appeso in croce?

A cosa tanto nefanda non si può dare in nessun modo un appellativo sufficientemente degno!

Cicerone

 

Tra il 136 e il 71 a.C. la Repubblica romana fu impegnata nelle tre guerre servili per sopprimere le ripetute rivolte degli schiavi. Di queste, l’ultima capeggiata dal gladiatore trace Spartaco fu la più celebre e la più gloriosa. Il conflitto iniziò a Capua nel 73 a.C., ma si estese ben presto a tutta la penisola italica, costringendo i Romani a due anni di feroci combattimenti, sino alla battaglia finale, nei pressi del fiume Sele, in Lucania, dove morirono 60.000 schiavi combattenti, tra i quali lo stesso comandante. Sorte peggiore fu quella riservata ai 6.000 prigionieri, snidati tra i boschi, che Crasso fece crocifiggere lungo la via Appia, tra Capua e Roma, come monito per qualsiasi altro tentativo di insurrezione. La pratica della crocifissione  era ben nota nel bacino del Mediterraneo sin dal tempo dei Fenici, e i Romani la appresero dai Cartaginesi durante le guerre puniche, considerandola una condanna talmente atroce ed umiliante da non poterla comminare ad un cittadino romano, tant’è che il ‘supplizio più crudele ed il più tetro’ veniva riservato, secondo le fonti storiche, agli schiavi, ai prigionieri di guerra ed ai ribelli al dominio di Roma.

Riconosciuta la colpevolezza e pronunciata la condanna ‘sia messo in croce’, il magistrato dettava il titulus – il motivo della sentenza – che veniva scritto su un cartello, ed indicava anche le modalità di esecuzione, delegata ai carnefici, o, nelle province, ai soldati. Il condannato, denudato e legato ad una colonna, veniva flagellato da una coppia di tortores con strumenti diversi a seconda della condizione sociale; per gli schiavi era previsto il flagrum o flagellum formato da due o tre strisce di cuoio o di corda, intrecciate con schegge di legno, ossicini di pecora e piccole sfere di metallo.  Benché la legge Giudaica prevedesse 39 colpi, probabilmente venivano limitati ad una ventina affinché il condannato rimanesse in vita e potesse essere condotto al supplizio finale. Il titulus, appesogli al collo o portato da un banditore, aveva la funzione d’informare la popolazione sulle sue generalità, sul delitto e sulla sentenza.  I cruciferi – ‘portatori di croce’ – erano caricati del patibulum, una trave orizzontale di circa 40 chili, legata alle spalle, con cui giungevano sul luogo dell’esecuzione, situato fuori dalle mura cittadine e dove era già piantato un palo verticale di circa 2 metri, lo stauròs (σταυρός), lo stipes latino. Questo palo era generalmente fornito di una sporgenza, il pegma, un rozzo sedile su cui la vittima sedeva a cavalcioni.  L’inchiodamento dei polsi avveniva con il condannato a terra, mentre quello dei piedi avveniva dopo aver sollevato il patibulum sullo stipes. L’agonia era lenta, potendo durare anche 36-48 ore. L’innaturale posizione del corpo, col tronco accasciato ed abbassato, determinava l’immobilizzazione del torace in una posizione tale da rendere difficoltosa la respirazione. Per prendere fiato il condannato doveva spingere sui piedi inchiodati, facendo forza sui polsi trafitti e riportare il torace all’altezza delle braccia, per cercare una normale dinamica respiratoria. Pertanto, doveva fare leva sulle gambe,  in un continuo dolorosissimo saliscendi lungo il palo della croce – excurrere in crucem – sin quando, allo sfinimento delle forze, sopraggiungeva la morte asfittica.  «Vivono con sommo spasimo talora l’intera notte e di poi ancora l’intero giorno» (Origene). Talvolta per motivi d’ordine pubblico, per usanze locali o per l’intervento di parenti o amici, i carnefici acceleravano  la morte del condannato con un letale colpo di lancia al cuore, oppure con il crurifragius, fratturando i femori con una clava, provocavano una improvvisa impotenza muscolare, cosicché l’asfissia sopravvenisse in pochi minuti, come fu, ad esempio, per i due ladroni evangelici. «Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe al primo e poi all’altro che era stato crocifisso insieme con lui» (Giovanni 19, 32-34).

Il Crocifisso e l'infarto

La vera causa della morte del Crocifisso più noto della storia ha alimentato la letteratura tanatologica sin dalla metà dell’Ottocento, e nel 1871 il medico scozzese William Stroud ipotizzò che il decesso fosse dovuto per un infarto miocardico da stress, e non per insufficienza respiratoria. «Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, lo interrogò se fosse morto da tempo». (Marco 15, 44). La morte del Nazareno, sopraggiunta in poco più di tre ore – come narrano i tre Vangeli sinottici – induce a pensare che il meccanismo fisiopatologico che portava i crocifissi  ad exitus, potesse essere, nel caso di Gesù, diverso. L’analisi delle ventiquattro ore  precedenti, dalla cattura alla morte, rende plausibile un evento cardiaco fatale. Luca, l’evangelista medico, ci parla della ematoidrosi – «in preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce  di sangue che cadevano a terra» (Luca 22,44) – raro fenomeno indotto da una forte reazione adrenergica, ma possibile nell’Uomo solo e atterrito che nel Getsemani attende l’arresto e che oltre all’immaginario evocato dalle Scritture è drammaticamente rappresentato nel film La Passione di Mel Gibson. Allo stress emotivo si sovrappone quello fisico: i numerosi spostamenti che lo videro prima dai sacerdoti Anna e Caifa, poi tradotto al Sinedrio, al Pretorio, ed ancora al palazzo di Erode Antipa. Insonne, senza cibo ed acqua, trascinato tra insulti e percosse, sino alla feroce flagellazione ed alla coronazione di spine che peggiorerà la già abbondante perdita di sangue. Disidratato, prostrato da fatica e da emorragie traumatiche, percorre circa un chilometro  per raggiungere la sommità del Golgota sotto il peso del patibulum. L’esecuzione prevede che l’Uomo sia nudo, e quindi lo strappo della tunica incollata alle piaghe formatesi provocano ulteriore dolore e perdita di sangue. Dei tre diversi tipi di croci utilizzate dai Romani, quasi certamente  Gesù  viene inchiodato su una croce immissa o capitata, quella più nota e consolidata dalla iconografia pittorica, che, sino al XIII secolo, giustamente raffigurò i piedi inchiodati separatamente, anche se non per conoscenza storica, ma per incapacità prospettiche.

La lucidità e la coerenza delle parole pronunciate da Gesù in croce, e riportate nei sinottici «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Luca 23, 34), ed il grido: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato!» (Marco 15, 33) lasciano supporre un evento fatale acuto, piuttosto che un graduale obnubilamento premorte indotto dall’acidosi respiratoria e dal collasso ortostatico indotto dal sequestro periferico di sangue. Dunque, l’ipotesi che un vasospasmo coronarico in un soggetto sano possa aver determinato un infarto miocardico, può essere avanzata in virtù delle attuali conoscenze fisiopatologiche. La rottura di cuore con conseguente emopericardio, quale complicanza dell’infarto stesso, sarebbe poi testimoniato dal doppio fiotto di sangue ed acqua che fuoriesce dal costato colpito dalla lancia del centurione «ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua». (Giovanni 19, 34). Il meccanismo fisiopatogenetico della occlusione coronarica acuta  potrebbe essere invero determinato anche da una embolizzazione di vegetazioni trombotiche provenienti dai traumatismi interni ed esterni ed altresì aggravata da una ischemia miocardica secondaria indotta dalla progressiva anemizzazione. Lo stupore di Pilato sarebbe pertanto da riferire alla relativa rapidità del decesso, inusuale in questo supplizio che proprio nella sofferenza prolungata della insufficienza respiratoria esprimeva la sua atrocità.

Non si chiamava Yehoshua Mi Nazeret (Jesus Nazarenus) ma Yohanan Ben Hagkol.             

Non aveva 33 anni, bensì 25. Lo scheletro di Yohanan, il cui nome è nell’iscrizione dell’ossuario, è stato ritrovato in una grotta per sepolture a nord di Gerusalemme nel 1968, e resta l’unica testimonianza concreta della stessa crocifissione con cui morì Gesù. Quando il direttore degli scavi aprì quell’urna, capì di essere di fronte ad una scoperta storica. Quel morto, certo contemporaneo di Gesù, non era una personalità e nulla sappiamo di lui, né del suo reato, ma il modo in cui trovò la morte lo ha reso celebre: nel suo piede, all’altezza della caviglia, si vede conficcato un chiodo, con tanto di supporto di legno di ulivo per tenerlo più stretto. In quei tempi  in Palestina, così come in tutte le province dell’Impero Romano, migliaia di condannati morirono sulla croce. Gesù, condannato per blasfemia dal Sinedrio, non fu lapidato come la legge giudaica prevedeva, ma crocifisso come uso dalla potenza occupante romana, e mai era stata trovata prova che la crocifissione avvenisse con l’uso di chiodi su piedi e mani come descritto dai Vangeli. Joseph Zias, l’antropologo israeliano che studiò le ossa dell’ignoto condannato, aggiunse  «È possibile che la maggior parte delle crocifissioni avvenisse solo con l’uso della corda con i piedi appoggiati ad un tassello di legno e con mani e polsi legati attraverso la croce e che la morte sopraggiungesse per asfissia. I chiodi venivano conficcati quando il martirio doveva risultare più doloroso e dunque in casi eccezionali».

Gesù di Nazareth fu uno di questi.

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