Cuore da Covid
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Cuore da Covid

di Leonardo De Luca e Andrea Marcheselli

 

Il 20 febbraio 2020 Mattia, un podista trentottenne di Codogno, viene ricoverato in rianimazione per una grave polmonite bilaterale atipica. Risultato positivo al SARS-CoV-2, viene considerato il paziente Uno, benché rimanga l’enigma di chi sia stato il paziente Zero, in quanto il suo amico, rientrato dalla Cina e con cui aveva cenato sere prima, era risultato negativo. Verosimilmente, il primo caso europeo accertato si era invece verificato a Monaco di Baviera a fine gennaio, dove un trentenne durante un meeting di lavoro, era stato contagiato da una donna asintomatica arrivata da Shanghai. Entrambi erano poi risultati positivi al tampone faringeo, anche se il giovane aveva sviluppato i primi sintomi respiratori il 24 gennaio, mentre la donna li aveva manifestati solo successivamente, durante il volo di ritorno in Cina. L’ipotesi avanzata da diversi scienziati e da alcune autorevoli riviste, ha dunque riavvolto il nastro di questa epidemia riportandoci al caso tedesco del paziente Zero, confermato anche dalla variante del genoma del virus.

Contemporaneamente all’esplosione dell’epidemia in Italia, proprio dalla Cina provenivano i primi dati epidemiologici che rilevavano come il 40% dei pazienti ospedalizzati per COVID-19 fossero prevalentemente anziani ed affetti da patologie cerebro cardiovascolari, e che quest’ultima categoria fosse maggiormente esposta a contagiarsi ed a sviluppare sintomi. Anche se la presenza di ipertensione e diabete era percentualmente sovrapponibile alla popolazione generale, l’incidenza di patologia cerebro cardiovascolare era maggiore nei pazienti con COVID-19, potendone aggravare il danno miocardico già presente. In Italia, le comorbidità registrate nei pazienti deceduti riguardavano i tipici fattori di rischio con incidenze diverse, l’ipertensione arteriosa (76%), il diabete (36%), la malattia coronarica (33%), la fibrillazione atriale (25%), l’insufficienza renale (18%) e la broncopneumopatia cronica (18%). Dunque, i cardiopatici affetti da coronavirus sviluppano sintomi respiratori più gravi e rappresentano in genere una categoria maggiormente a rischio di morte, con una media di età intorno agli 80 anni ed una percentuale del 70 % di maschi. Da queste osservazioni, in alcuni protocolli terapeutici è stata posta particolare attenzione nell’utilizzo di farmaci antivirali, proprio per la loro potenziale cardiotossicità, tale da indurre aritmie o insufficienza cardiaca nei soggetti già affetti da malattie cardiovascolari. Nel continuum informativo su cause possibili e probabili, spesso mediate da canali non propriamente scientifici, si è ipotizzato che esistesse una maggior possibilità di contagio del virus per i pazienti ipertesi, in trattamento con inibitori dell’enzima di conversione (ACE-inibitori o Sartani), a causa di una interazione negativa con i suoi recettori polmonari, tanto da indurre le società di Cardiologia a sconfessare tale rischio, in assenza di evidenze cliniche e scientifiche. Dalle metanalisi pubblicate, è comunque evidente come le complicazioni cardiache concorrano certamente nella prognosi di pazienti COVID, attraverso meccanismi fisiopatologici che inducono danno microvascolare, lesioni miocardiche da ipossia e da processi infiammatori. I riscontri post mortem dei tessuti analizzati presentano, infatti, tipiche infiltrazioni infiammatorie a carico delle strutture vascolari e cardiache, responsabili di shock cardiogeno, ischemia miocardica ed aritmie fatali. In una condizione infettiva di infiammazione sistemica e di conseguente ipercoagulabilità, i soggetti con malattia coronarica preesistente o pregressa angioplastica possono incorrere più facilmente in sindromi coronariche acute per rottura della placca aterosclerotica o in trombosi intrastent, e quindi possono trarre beneficio dal potenziamento della terapia antiatrombotica.

Sebbene le elevate contagiosità e mortalità del nuovo coronavirus inducano gravissime conseguenze, il SARS- CoV-2, come altre infezioni da patogeni virali o batterici, ha delle ben note correlazioni con le malattie cardiovascolari. Le diverse forme di cardiopatie infettive e/o infiammatorie, anche misconosciute, che ricorrono nella pratica clinica, riconoscono nei loro meccanismi fisiopatogenetici, il comune denominatore della flogosi reattiva e della risposta immunitaria. Nonostante tali processi reattivi sul sistema cardiovascolare siano noti e vengano trattati usualmente nella pratica clinica, in questa fase emergenziale anche gli sforzi scientifici sono comunque tesi a valutare, conoscere ed auspicabilmente a prevenire il più possibile e nel minor tempo, tutte le complicazioni di questa infezione. Il coronavirus può dunque influenzare significativamente la funzionalità cardiaca, ed è dunque ipotizzabile che la morbilità e talora letalità riscontrata anche in giovani sani, sia in parte riconducibile anche a complicanze cardiovascolari e non unicamente respiratorie.

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