Doping e sport: la grande vergogna
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Doping e sport: la grande vergogna

Salute & sport

di Nicola Iacovone

(I parte)

 

Un problema complesso

Per comprendere meglio il fenomeno del doping nello sport e quindi poter addentrarci pienamente nell’argomento, è opportuno fare alcune considerazioni preliminari.

Le motivazioni che spingono gli atleti ad assumere farmaci in maniera fraudolenta, ossia in assenza di stati patologici conclamati e solo per migliorare la propria prestazione fisica, sono le più varie. Tra esse ricordiamo: suggerimento di persone che si ritengono ‘esperte’, consiglio di altri atleti, letture di ‘riviste parascientifiche’ di settore, imitazione di atleti ‘campioni’ che si ritiene usino farmaci doping, necessità di controllare stati depressivi o ansiosi legati alla pratica sportiva agonistica (sindrome del campione, nikefobia, paura della sconfitta, ansia pre-gara, ecc.), necessità di motivare nel farmaco la continuazione dello sport agonistico e, non ultimo, l’inadeguatezza nel raggiungere il traguardo sportivo prefissato.

Purtroppo questo fenomeno – dilagato anche per l’indifferenza di molte organizzazioni sportive – ha coinvolto oramai non solo atleti di prestigio, ma anche le categorie amatoriali e, cosa ancor più grave, le categorie giovanili. Alla diffusione sempre più ampia dello sport, infatti, si è associata una sempre maggiore ‘ricerca’, spesso con finalità di lucro, unitamente ad approfondimenti medico-scientifici e biologici, fino ad arrivare ad una vera e propria commercializzazione dello sport, il quale ha perso buona parte dei connotati antropologici che gli competono.

Inoltre, con riferimento all’utilizzo di sostanze, è bene ricordare che i farmaci (a scopo medicamentoso) devono possedere, nel loro impiego, esclusivamente due effetti: il curativo (nel soggetto ammalato) ed il preventivo (nel soggetto sano con predisposizione ad ammalarsi). Inoltre, l’uso dei farmaci stessi presuppone, da parte di chi lo prescrive, la conoscenza della farmacocinetica (biodisponibilità, assorbimento, distribuzione, metabolizzazione, escrezione), farmacodinamica (latenza, durata, intensità, sede dell’azione), farmacoterapeutica e tossicologia, peculiare per ogni farmaco.

Chiaramente, per contrastare il fenomeno del doping, bisogna agire non solo sul fronte dei deterrenti legali (in Italia la nuova legge trasforma il doping in illecito penale) o sulla ricerca di nuove tecnologie di esami antidoping, ma soprattutto in una capillare e costante informazione sul rischio che tali pratiche fraudolente comportano sullo stato di salute dei nostri atleti (giovani e meno giovani).

A questo punto possono essere utili alcuni cenni sulla ‘definizione di doping’ e sulla ‘storia del doping’. Ciò permette di valutare non solo la vastità e poliedricità del problema, ma anche di fare le giuste considerazioni sulle richieste – ed aspettative – che giungono a noi medici dello sport da parte degli atleti, affinché essi possano migliorare la propria prestazione fisica senza alterare – o alterando – lo stato di benessere psichico e fisico derivante dalla pratica sportiva.

Definizione di Doping

Il termine Doping deriva dal fiammingo ‘mistura’, e sta a significare «l’assunzione di sostanze od il ricorso a particolari metodiche capaci di aumentare artificialmente il rendimento di un’atleta durante una competizione sportiva, contrariamente alla morale sportiva ed alla salute fisica e psichica».

È questa la definizione di doping ‘positivo’, ma esiste anche il doping ‘negativo’, in cui sostanze capaci di diminuire il rendimento di un’atleta sono ad esso subdolamente somministrate per minorarne le capacità competitive. Le Federazioni Sportive di tutte le nazioni hanno sancito nei loro regolamenti il divieto dell’uso delle sostanze ritenute doping. In particolare il C.I.O. ha definito il doping come:

La somministrazione o l’uso da parte di un’atleta in gara, di qualunque sostanza estranea all’organismo o di qualsiasi sostanza fisiologicamente assunta in quantità anormale, con la sola intenzione di aumentare in maniera artificiale e sleale la prestazione durante la gara.

Letteralmente doping significa ‘drogarsi’ e negli USA il termine è usato da molti anni per indicare la pratica di somministrare eccitanti ai cavalli da corsa. In Italia l’attuale legge sul doping così enuncia:

Si definiscono doping e sono perseguiti secondo quanto previsto dalla presente legge, la somministrazione all’atleta professionista, dilettante o amatoriale e l’uso da parte di questi, di qualunque farmaco e di qualunque sostanza farmacologicamente attiva, comprese quelle di natura endocrinologica ed ematologica, nonché qualsiasi pratica inerente alle predette sostanze non giustificata da documentazioni patologiche ed effettuata con l’intento di migliorare le prestazioni agonistiche o di modificare le condizioni biologiche dell’organismo, ovvero di modificare i risultati di controlli sull’uso delle suddette sostanze.

Cenni storici sul doping: un problema di vecchia data

La pratica dell’assunzione di sostanze con lo scopo di aumentare artificialmente la prestazione fisica ha le sue radici in paesi come la Cina, molto prima della nostra era. Infatti, dai dati a nostra disposizione, si evince come già da allora si utilizzassero gli estratti di ‘efedra’ – pianta che contiene l’alcaloide ‘efedrina’ – per poter sopperire alla fatica fisica.

Al famoso lottatore greco Milo di Crotone (300 a.c.), cinque volte campione olimpico, si attribuiva un consumo quotidiano di 9 Kg. di carne per accrescere la massa muscolare. Mentre nel nord-europa si utilizzavano bevande a base di amanita muscaria (fungo che contiene  la sostanza psicotropa ‘bufoteina’), in Grecia (nel III secolo a.c.) venivano somministrati decotti con piante e funghi (fiori di sesamo) per aumentare le capacità fisiche di resistenza. Sempre con lo stesso scopo, in America del Sud venivano utilizzate le foglie di coca, e nell’America del Nord veniva assunto il peyote (fungo che contiene l’alcaloide ‘mescalina’).

Doping e sport: la grande vergogna

Il primo caso mortale riportato dalla stampa risale alla corsa ciclistica Bordeaux-Parigi in Francia del 1886. Vittima dell’ingenuità e del dolo, due componenti indispensabili a legittimare il doping, fu l’atleta Linton. La causa del decesso si conobbe in seguito: una mistura di eroina e trimetrina somministratagli dal suo allenatore, un costruttore di biciclette, il quale si dichiarò vittima di sola imperizia. Il primo scandalo avvenne nel 1897, sempre nel ciclismo, e coinvolse un atleta ed il suo manager. Vennero duramente squalificati.

Nell’era moderna si ricorda il caso del maratoneta Dorando Petri che alle Olimpiadi di Londra del 1908 fece uso di una miscela di stricnina e brandy (etanolo) con il ben noto esito catastrofico. Negli stessi anni era anche utilizzata la nitroglicerina con la speranza che la sua attività coronaro-dilatatrice potesse aumentare la portata cardiaca. E ancora, le ‘sei giorni ciclistiche’ americane di inizio secolo vedevano corridori allucinati dalla fatica, che pur di vincere ricchi premi messi in palio, assumono ‘stimolatori di efficienza’, come le definì un puritano giornale d’epoca: si trattava di pericolosi metodi dopanti.

I primi anni del Novecento trascorsero dunque tra i bisbigli sugli alchimismi vari usati nello sport e nel ciclismo in particolare, tra cui quelli usati – riferiscono fonti d’epoca – dal nostro connazionale Fausto Coppi, il quale cercava di eludere i controlli anti-doping effettuati sulle proprie urine bevendo acqua e bicarbonato durante le gare.

Negli anni 50 la ‘simpamina’ conobbe il maggior successo, infatti ne facevano uso anche gli studenti durante gli esami, e purtroppo nessuno s’indignò. Dell’effetto anti-fatica di queste molecole allora si sapeva soltanto che venivano assunte durante la seconda guerra mondiale dai piloti della Luftwaffe, costretti a turni di servizi massacranti e senza possibilità di riposo (le famose pastiglie Goering). Anche la caffeina era in auge e le anfetamine venivano considerate il top delle sostanze dopanti (anche se danno assuefazione), così come la stricnina, l’etanolo e la nitroglicerina.

Nel 1949, durante la corsa Milano-Rapallo, perì un ciclista italiano per morte di natura bulbare, notizia che nessun mezzo di informazione dell’epoca riportò. Nei suoi effetti personali furono trovati due tubetti vuoti di simpamina e stenamina (45 compresse in totale). Ci volle un altro morto nello sport per far scattare la repressione. Stavolta fu una vittima illustre, il campione del mondo e della Milano-S.Remo, Tommy Simpson, morto a causa di un cocktail di amfetamine. Allora ci si limitò a stilare una lista di sostanze proibite che s’ingrossava mese dopo mese senza trovare pace.

Nel tempo i controlli antidoping vennero intensificati, e nella rete caddero nomi celebri del mondo ciclistico: nel 1968 Motta e Balmamion; nel ‘69 e 7’3 Eddy Merckx; nel ‘77 fu una vera e propria retata: di nuovo Merckx, poi Maertens, Planckaert e Feirlinck e nel ‘78 Pollentier, vincitore del giro d’Italia dell’anno precedente.

Le sostanze e le metodiche utilizzate erano sempre più varie. I cannabinoidi (marijuana) venivano usati da atleti svedesi nella speranza che potessero aumentare lo scatto nelle corse di breve durata. Si ricorreva persino all’assunzione di grandi dosi di: gelatina (contiene glicina, aminoacido neurotrasmettitore), vitamina C ed E, estratti corticosurrenalici. E ancora: l’autoemotrasfusione, metodica usata in Italia dagli sciatori di fondo e dai ciclisti, il cortisone l’ormone della crescita sintetico e l’eritropoietina (EPO), sostanza capace di stimolare la produzione dei globuli rossi nel sangue.

Nel 1990 Johannes Draaijer, 20° nel tour del 1989, morì nel sonno la notte dopo una corsa ciclistica in Italia, per insufficienza cardiaca. Era al massimo della forma fisica: la moglie dichiarò che faceva uso di EPO. Negli stessi anni, la rivista tedesca Der Spiegel, affermò che l’eritropoietina avrebbe potuto avere un ruolo nella morte di almeno diciotto ciclisti europei.

Ed arriviamo infine ai giorni nostri, con i casi che tutti conosciamo, tra cui spicca il nome del velocista Ben Johnson, oramai legato all’uso degli steroidi anabolizzanti nello sport, e del ciclista Lance Armstrong, emerso nel 2012, che riuscì a vincere 7 Tour De France consecutivi dal 1999 al 2005, titoli poi revocati dal 1998. Dopo varie e approfondite analisi, si scoprì infatti che il texano aveva fatto uso di sostanze dopanti.

Nonostante i controlli, l’uso di sostanze e terapie dopanti è diffuso non solo nello sport professionistico, ma anche in quello dilettantistico ed amatoriale, purtroppo anche giovanile. Intorno al fenomeno del doping c’è un giro d’affari che in Italia è stimato in diversi milioni di Euro. L’Agenzia Mondiale Antidoping (AMA), in francese Agence mondiale antidopage (AMA) e in inglese World Anti-Doping Agency (WADA), è una fondazione creata per volontà del Comitato Olimpico Internazionale (CIO), il 10 novembre 1999 a Losanna, per coordinare la lotta contro il doping nello sport. A dirigere la WADA, suddivisi in ugual numero, vi sono rappresentanti di movimenti sportivi – inclusi gli atleti – e governi di vari stati del mondo. Le attività più importanti svolte dalla fondazione comprendono ricerche scientifiche, formazione, sviluppo di modalità anti-doping ed il monitoraggio del Codice Mondiale Anti-Doping.

 

 

 

Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare.
Esso ha il potere di unire le persone in un modo

che poche altre cose fanno.

Parla ai giovani in una lingua che comprendono. Lo sport può
portare speranza dove una volta c’era solo disperazione.


Nelson Mandela

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