Solitudine: la malattia più diffusa si può curare?
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Solitudine: la malattia più diffusa si può curare?

di Gianni Andrei

Sì, si nasce con una malattia congenita, per la quale non sembrano esistere vaccini, antidoti o terapie risolutive, ma solo palliativi temporanei: è la ‘solitudine interiore’.

Una volta era usuale stare in piazza, a parlare o ad ascoltare, per condividere gioie e dolori delle persone e poter offrire aiuto o almeno solidarietà. Era una vita che si svolgeva insieme a tutta l’altra gente, familiarizzando e socializzando. Oppure confrontandosi animatamente e anche fisicamente. Oggi basta stare seduto dinanzi allo schermo del computer o operare da qualsiasi luogo con un tablet, uno smartphone, per collegarsi, colloquiare e ascoltare gli altri. Una ‘piazza virtuale’, l’agorà del Terzo Millennio, come il ‘villaggio globale’ profetizzato da Marshall McLuhan prima dell’avvento di Internet. Ma con un crescente decadimento culturale in una società che appare già spenta dalla progressiva massificazione che s’avvia sulla strada del pensiero unico. Il mondo sembra diventato piccolo, con l’annullamento delle distanze fisiche e culturali e dove stili di vita, tradizioni, lingue, etnie sono rese sempre più omogenee, piatte e internazionali. Con Internet, appunto, affollato di informazioni, pensieri, entusiasmi, idee, depressioni, proteste, forti aneliti o inviti espliciti al nichilismo, alla ribellione, oppure all’ottimismo esasperato e alla speranza ‘a prescindere’: tutte voci senza volto e libere, poiché non attribuibili, che si palesano attraverso ‘maschere digitali’. Chi non vuole essere conosciuto rimane nell’ombra e dall’ombra parla con l’universo. Parla, solleva questioni, riceve consenso o meno, fa business, trascina simpatie e antipatie su un’idea, una proposta risolutiva di qualsivoglia problema senza mai incontrare nessuno, pur raggiungendo in tempo reale ogni parte del mondo. Non solo il web, ma poi soprattutto i social network – Facebook e Twitter, sopra tutti – danno voce a una comunità di solitari che si parlano a distanza, espongono il loro pensiero e le loro immagini, dichiarano volontariamente i loro ‘dati sensibili’ con spavalderia, arroganza, per puro narcisismo o per rompere lo steccato della propria solitudine, esponendosi a pericoli devastanti, ostaggio della smania di diventare ‘protagonisti’.

Oppure no, quando appaiono i cosiddetti ‘fake’, utenti che fingono di essere un altro utente, magari apprezzato dalla comunità, per lucrare qualsivoglia vantaggio o andare contro la sua reputazione, e poi i ‘troll’ (demone di leggende scandinave, frequentatore di luoghi solitari) che nel gergo di Internet è diventato utente di una comunità virtuale, solitamente anonimo, che invia messaggi provocatori, irritanti o fuori tema.

E tutti questi, proprio come malattie ed epidemie, diventano argomenti di studio specialmente nell’analisi e valutazione dei rischi, anche ai fini della sicurezza. Il confine tra verità e menzogna, tra sentimenti positivi individuali e pesanti proteste sociali collettive diventa talmente sottile e labile che risulta palese ma difficile da decifrare nell’origine anche a coloro che vigilano sulle comunicazioni, per interpretarle e per comprenderne i veri scopi. Un pericoloso gioco delle parti che può trovare, in alcuni, le basi per passare dal virtuale al reale, dalle parole ai fatti. Una piazza, quindi, dove non si riesce a distinguere il volto dei ‘buoni’ e dei ‘cattivi’.

Una semplice analisi dal punto di vista etico-sociale e del costume ci consente di evidenziare, nella società odierna, la grandissima dipendenza della gente dai ‘modelli virtuali’, che ci vengono continuamente e quotidianamente propinati e imposti, in primis dalla televisione, tesi a immortalare stereotipi completamente avulsi dalle realtà collettive e individuali, come pure i già nominati siti web e i social network, sempre più protagonisti incontrastati e incontrastabili della nostra vita quotidiana. Ecco allora che la voglia di protagonismo, lo spirito di emulazione contagia tutti, grandi e piccoli, ricchi e meno abbienti, fino a seguire tendenze, mode, comportamenti e atteggiamenti, spesso solo trasgressivi ma a volte molto imprudenti. Evidentemente è difficile oggi educare ed educarci, specialmente quando spettacolarità e sensazionalismo sono considerati, insieme al bisogno di apparire, primeggiare e farsi invidiare, gli obiettivi primari e irrinunciabili della vita.

Quando divampa il desiderio di avere qualche cosa di concreto o di gratificante, eccitato dal centro di piacere determinato dalla carica di dopamina, è molto difficile resistere, anche perché l’intensità del desiderio ‘crea un disagio legato alla mancata ricompensa’. Per cui, per colmare questo malessere, è meglio ‘rassegnarsi’ a ottenere qualcosa di più facile da raggiungere che continuare a soffrire. Nell’ambito sociale ciò che sembra semplice in realtà è quasi utopico da raggiungere. Nella pesante situazione contingente che stiamo vivendo, sia a livello economico che etico, il lanciarsi in un’ossessiva autoreferenzialità può essere un boomerang micidiale. Una ‘sindrome’ che colpisce tante persone, e spesso anche quelle istruite e colte ma evidentemente ‘sole’. Se si rischia di essere travolti dal rifiuto e dalla derisione della gente, figurarsi cosa può succedere sui social-network! Siamo in una giungla socio-mediatica dove l’essere più debole viene spietatamente soppresso. Ed ecco allora che si può diventare un ‘fake’ o un ‘troll’, non solo nella piazza virtuale.

Per non avvitarsi nella spirale è necessario ricercare un antidoto e trovare almeno un rimedio temporaneo, ‘da assumere all’occorrenza’. No, non è un medicinale che si trova in farmacia. È qualcosa che può rendere la solitudine ‘dorata’ e contemporaneamente fa sentire in armonica condivisione con tanta gente, conosciuta o no, e soprattutto al di là del tempo e dello spazio.

Solitudine: la malattia più diffusa si può curare?

Ricordo la sensazione di stordimento e di spaesamento quando, da ragazzino, uscivo dal cinema e mi reimmergevo in luoghi e in atmosfere familiari che rompevano comunque l’incantesimo di essere in un’altra dimensione. Ho riprovato, anche poco tempo fa, una sensazione del genere, uscendo da una pinacoteca di dipinti antichi e ancora da un concerto di musica classica. L’incontro con l’arte è una panacea.

Qualcuno obietterà con almeno due argomentazioni: occorre possedere una radicata ‘cultura umanistica’ e poi bisogna avere la volontà di entrare in un museo o in un auditorium. Certamente avere un’educazione classica può essere un vantaggio ma in realtà l’avvicinarsi e saper godere del ‘bello’ è un desiderio intimo che dipende dall’animo e non dalla propria erudizione. Chi sa incantarsi davanti a un tramonto, chi sa perdersi a inseguire gli zirli di un merlo, chi è capace di trattenere il sospiro al vento che modella le nubi, ha le capacità di reagire e di cercare e trovare il ‘momentaneo rimedio’. Sì, certo, queste sono emozioni che si vivono nella propria solitaria intimità, perché ognuno le sa far distillare nell’anima in modo diverso da un’altra persona. Ma comunque non è più solo!

 

Utilità è quando hai un telefono, lusso è quando ne hai due,
opulenza è quando ne hai tre…
e paradiso è quando non ne hai nessuno.


Doug Larson

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