Blockchain: il travolgente futuro della sicurezza distribuita
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Blockchain: il travolgente futuro della sicurezza distribuita

di Mario Gentili

Il 31 ottobre 2008 segna un evento i cui effetti non sono tutt’ora facilmente valutabili: nascono il bitcoin e il Bitcoin.

Con una comunicazione a dir poco lapidaria il fantomatico sig. Natoshi Nakamoto comunica al mondo la nascita della prima moneta virtuale: il bitcoin (“b” minuscola) e la relativa architettura tecnica a supporto: il Bitcoin (“B” maiuscola).

Semplificando, il bitcoin è una moneta online basata sulla crittografia, per questo detta anche “cripto-moneta”. In altre parole, il bitcoin ha un valore, lo si può effettivamente usare per delle transazioni, ma non si potrà mai avere nel proprio portafogli assieme alle banconote in corso.

Di contro, il Bitcoin è un’architettura che, nella migliore tradizione della Complessità, integra e prende quanto di meglio esiste dalla teoria dei giochi, dalla crittografia, dal computer networking e dalle nuove strategie finanziarie. Forte dell’esperienza dello streaming musicale di Napster e della condivisione dei file di Bittorrent, rappresenta un effettivo cambiamento di mentalità che implica anche aspetti sociali e psicologi non banali: generalmente riponiamo la nostra fiducia in persone o istituzioni che conosciamo o che riteniamo affidabili, sicure. È il caso delle banche che fin dai tempi dei nostri nonni hanno rappresentato “qualcosa di cui fidarsi”.  Certo i tempi cambiano, ma come spiegare al mondo che esiste un sistema “nascosto”, di cui non abbiamo alcun controllo, che è più sicuro di una banca?

È proprio questa la sfida affrontata da Nakamoto: il cambiamento di paradigma da sistema centralizzato, protetto, visibile, ma limitato nella sua accessibilità, a pagamento e fortemente vulnerabile nella sua struttura centrale, a un sistema decentralizzato dove non esiste un “capo” a cui fare riferimento e dove tutti gli attori, detti nodi della rete, sono alla stessa stregua (peer-to-peer). Almeno a prima vista, i vantaggi sono a dir poco strabilianti, quasi non credibili: transazioni finanziarie a costo praticamente nullo e indipendente dal valore economico (0,04 dollari di tasse per transazioni dell’ordine delle decine di milioni di dollari), disponibilità del sistema h24, sette giorni su sette. In caso di rottura di un nodo non c’è collasso di sistema, ma si cambia percorso nella rete, escludendo la causa di errore: per avere un fermo di sistema si dovrebbero spegnere contemporaneamente tutti i nodi della rete, evento questo praticamente impossibile. Nessun limite al valore degli scambi, nessun vincolo, se non quello etico, sulla provenienza del denaro.

Nakamoto come un nuovo Robin Hood? Fedele al suo alone di mistero, nulla si sa di lui o di lei o del gruppo che porta il suo pseudonimo, lasciando ai cacciatori di mistero l’arduo compito di svelarne l’identità, in questa sede è bene concentrarci sulla sua eredità tecnologica (sì perché nel frattempo Nakamoto è svanito nel nulla con i suoi bitcoin).

Il software Bitcoin viene reso pubblico e spiegato da Nakamoto in un white paper di nove pagine (i più curiosi lo possono trovare qui: https://bitcoin.org/bitcoin.pdf). Il protocollo si basa sulla condivisione di un unico file detto “registro pubblico distribuito delle transazioni”, o Distributed Ledger che è una sorta di libro mastro condiviso in grado di certificare ogni singola transazione (block), ovvero ogni movimento, effettuato ad una certa data-ora, all’interno del sistema. Il block può viaggiare nella rete ma non può essere né modificato, né duplicato: caratteristica straordinaria in ambito digitale dove la consuetudine è quella della copia. Il segreto è nell’uso della crittografia asimmetrica, basata sulla coppia di chiavi pubblica e privata, il cui utilizzo è il cuore della firma digitale. Infatti, senza addentrarci in dettagli, è noto che la firma digitale permette al destinatario di un messaggio di verificarne, oltre l’originalità del mittente, la sua univocità ed integrità: è, in altre parole, come se, fisicamente presenti, stessimo firmando di nostro pugno.

In Bitcoin la chiave privata è generata automaticamente dal sistema nel momento in cui noi effettuiamo la richiesta di farne parte (per i più curiosi: https://www.bitaddress.org). Di contro, la chiave pubblica, detta anche wallet, è rappresentata dall’indirizzo Internet che compare sul nostro browser una volta generata la chiave privata.

Ogni nostro movimento, genera un block che viene subito firmato digitalmente con la nostra chiave privata e distribuito sulla rete che, tramite l’uso della nostra chiave pubblica, può verificare in qualsiasi momento la veridicità e l’onestà della transazione. Usando una metafora è come se avessimo al fianco un notaio che certifica ogni nostra transazione al mondo esterno. Più transazioni generano una catena (chain): ecco perché si utilizza il termine Blockchain.

Il modello Blockchain permette di rimpiazzare qualunque autorità centrale il cui ruolo è quello di mantenere un registro pubblico (per esempio il Catasto, il Pubblico Registro Automobilistico, etc.). Allora, lasciando al suo destino la finanza e le banche centrali, che è meglio non scomodare, viene immediato utilizzare la tecnologia in tutti quei settori che lo consentono, ovvero in quelle occasioni, da notariato, dove è necessario dimostrare che un documento esisteva proprio in quella forma e proprio in quel momento.

Non ci sono dubbi che la Blockchain è chiamata a svolgere un ruolo sempre più importante a livello di Government e di rinnovamento della Pubblica Amministrazione. Per cercare di orchestrare, favorire e stimolare questa innovazione 23 paesi europei, 24 con l’Italia che si è aggregata da poco, hanno deciso di dare vita alla European Blockchain Partnership (EBP), un’iniziativa che punta a favorire la collaborazione tra gli stati membri per lo scambio di esperienze sia sul piano tecnico, sia su quello della regolamentazione e della standardizzazione. Con questa iniziativa è possibile ripensare i sistemi informativi, per introdurre soluzioni che permettono di aumentare la fiducia dei cittadini e di garantire sempre meglio la protezione dei dati personali, tutto finalizzato ad una migliore offerta di servizi.

Esempi significativi di prime applicazioni sono il settore delle assicurazioni, quello agroalimentare e quello della distribuzione, dove è importante garantire la tracciatura della cosiddetta “filiera di produzione”.

L’Europa è molto attiva sulla tematica: il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione il 3 ottobre 2018 sulle tecnologie di registro distribuito (Distributed Ledger Technologies, DLT) avente per tema la creazione della fiducia attraverso il paradigma della condivisione peer-to-peer. Viene quindi sottolineata l’importanza strategica delle DLT per le infrastrutture pubbliche ad esempio per la riduzione della burocrazia, il decentramento della governance ed il rafforzamento dell’esercizio dei diritti dei cittadini.

Anche l’Italia è sensibile alla tematica. Esiste un emendamento al decreto Semplificazioni, che introduce per la prima volta nel nostro ordinamento giuridico le “tecnologie basate su registri distribuiti come la Blockchain”. La prima conseguenza pratica è la possibilità di dare un valore legale ad una transazione che sfrutti un registro elettronico distribuito e informatizzato, senza passare da notai o enti certificatori centrali. Di più, lo stesso decreto introduce per la prima volta la definizione di “smart contract”, ovvero un contratto eseguito in automatico da un programma informatico che ha lo stesso valore giuridico di un contratto “normale”, scritto e firmato.

Insomma, il Blockchain sembra abbia come solo limite quello delle sue applicazioni, ed entra a pieno titolo nell’attuale “Rinascimento digitale” che se da una parte è chiamato a rispondere alle nuove sfide sociali e di mercato, dall’altra va opportunamente regolamentato per evitare dittature informatiche dagli effetti indesiderati.

 

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