Il potere antinfiammatorio degli alimenti
 |  |  | 

Il potere antinfiammatorio degli alimenti

di Paola Marconi

L’infiammazione è un meccanismo di difesa che il nostro corpo mette in atto di fronte a stimoli che esso reputa dannosi; lo scopo è quello di cercare di eliminare la causa del danno cellulare per mettere in moto il processo riparativo.

Nel momento in cui l’infiammazione persiste per un tempo prolungato, essa diventa cronica.

La risposta del nostro corpo associa all’infiammazione, il dolore; infatti, cellule infiammatorie, cellule della glia e neuroni formano una rete integrata, nella quale la risposta immunitaria modula la via metabolica del dolore.

Evidenze scientifiche fanno emergere che, in pazienti che manifestano dolore cronico, sono presenti spesso malattie cronico-degenerative come obesità, ipertensione, depressione, malattie cardiovascolari e diabete. La percentuale di persone obese/sovrappeso è più alta tra chi soffre di dolore cronico (80%) se paragonata alla popolazione generale (63%) (Brain K. et al, 2018), e queste persone condividono il fatto di avere un’infiammazione cronica.

Ecco che ricorre ancora una volta il concetto che una dieta corretta ed equilibrata, dove per dieta si intende ‘stile di vita’, quindi corretto stile di vita necessario, prima di tutto, per prevenire e, in seconda battuta, per curare, le infiammazioni patologiche e l’inflammaging, cioè uno stato pro-infiammatorio di basso grado, che insorge durante il processo fisiologico dell’invecchiamento.

Prima di tutto è fondamentale una restrizione calorica della dieta, la quale favorisce la riduzione dell’inflammaging, perché riduce la biosintesi delle citochine proinfiammatorie, a fianco di un fattivo stimolo sulla bioenergetica mitocondriale.

Ad esempio, fonti alimentari di grassi saturi e acidi grassi trans, stimolano lo stato infiammatorio. Diversamente si comportano gli acidi grassi omega-3, omega-6 e l’acido oleico presente nell’olio di oliva (EVO) in grandi quantità (70% – 75%).

L’acido oleico è un grasso monoinsaturo che presenta un doppio legame in configurazione cis, caratteristica chimica che gli conferisce un punto di fumo elevato e che quindi lo rende adatto ad ogni tipo di cottura.

L’EVO contiene polifenoli, come ad esempio l’oleoeuropeina, sostanza a cui il frutto fresco dell’olivo deve il suo sapore amarognolo; i polifenoli hanno un’azione cardioprotettiva, neuroprotettiva, immunomodulatrice ed anticancro. L’assunzione giornaliera di olio EVO ha un effetto protettivo nell’epatite e nelle malattie delle vie biliari, dà un adeguato apporto di vitamine A, D ed E, favorisce l’assorbimento di altre vitamine, facilita l’assorbimento di calcio da parte dell’intestino, stimola l’attività pancreatica, favorisce l’ipermotilità intestinale; ancora, previene e limita l’infarto del miocardio, l’invecchiamento cellulare, l’ulcera gastrica e l’osteoporosi, ha effetti antiossidanti, diuretici, lassativi, antinfiammatori dello stomaco. Inoltre, aumenta la sensibilità all’insulina, e previene o rallenta la formazione delle placche aterosclerotiche all’interno dei vasi.

La concentrazione fenolica di olio EVO (50–800 mg/kg) dipende da alcune variabili, in particolare dalla cultivar, dal grado di maturazione del frutto, da fattori ambientali.

L’apporto di olio EVO per le popolazioni mediterranee è di circa 30–50 g/giorno, con un apporto in fenoli di 4–9 mg/giorno.

European Food Safety Authority (Efsa Commission Regulation, 2012) raccomanda un consumo giornaliero di 5 mg di idrossitirosolo e dei suoi derivati (circa 20 grammi di EVO al giorno, cioè due cucchiai da minestra) per prevenire malattie cardiovascolari, l’infiammazione e lo stress ossidativo.

Inoltre, sotto il profilo prettamente nutrizionale, per una dieta antinfiammatoria gli omega-3 rappresentano la fonte di acidi grassi che risulta più importante incrementare nel contesto della propria alimentazione quotidiana, finalizzata parallelamente alla riduzione dell’assunzione degli acidi grassi trans o idrogenati, i quali si ottengono modificando gli acidi grassi polinsaturi per renderli ‘più rigidi’ e conferire maggiore consistenza al prodotto (ad esempio la margarina).

Quando si è indagato se l’assunzione di acidi grassi polinsaturi (PUFA) fosse associata alla riduzione dei livelli sierici di proteina C–reattiva (PCR), uno dei marker dell’infiammazione, dai risultati si è visto che un elevato consumo di PUFA totali risulta a tutti gli effetti associato a livelli più bassi di PCR, comportando una riduzione del livello di infiammazione sistemica cronica.

I PUFA svolgono un importante ruolo biologico e si differenziano in omega-6 ed omega-3. Nella via biosintetica degli omega-3, a partire dall’acido linolenico (ALA), che deve necessariamente provenire dalla Dieta perché non direttamente prodotto dall’organismo, si formano l’acido eicosapentaenoico (EPA) e l’acido docosaesaenoico (DHA).

Una dieta povera di questi metaboliti favorisce la comparsa di malattie degenerative cardio e cerebrovascolari; in particolare, è stato evidenziato che il DHA espleta un’azione plastica sul cervello, andando ad aumentare la fluidità e la plasticità sinaptica e neuronale. L’EPA e il DHA influenzano positivamente la natura fisica delle membrane cellulari, le risposte di membrana proteino–mediate, la generazione di mediatori lipidici, i processi di signaling cellulare e l’espressione genica.

Le interazioni complesse tra componenti alimentari e modificazione degli istoni, la metilazione del DNA, l’espressione dell’RNA non codificante e fattori di rimodellamento della cromatina influenzano il fenotipo ‘inflammaging’ e, come tali, possono proteggere o predisporre un individuo a numerose malattie legate al progredire dell’età.

Azioni epigenetiche di componenti della dieta, inclusi fitochimici, macro e micronutrienti, così come i metaboliti, possono concretamente attenuare l’inflammaging, anche agendo sull’espressione genica.

Dati epidemiologici sono concordi nel dimostrare che la Dieta Mediterranea riduce il rischio di una varietà di tumori, anche attraverso un’azione antinfiammatoria. Essa modula più processi interconnessi coinvolti nella risposta infiammatoria, come la produzione di radicali liberi, l’espressione di mediatori infiammatori, il percorso sottostante al metabolismo degli eicosanoidi, la modulazione della flora intestinale, l’omeostasi e la modulazione epigenetica, oncogenetica e oncosoppressiva tramite microRNA specifici.

La stessa obesità, come si accennava prima, è considerata oggi una malattia infiammatoria e il legame tra il metabolismo e l’infiammazione è un fenomeno ormai molto studiato.

È ormai noto che il tessuto adiposo secerne alcuni fattori infiammatori (adipocitochine) e che l’obesità è associata all’infiltrazione di macrofagi nel tessuto adiposo. I macrofagi rilasciano differenti mediatori chimici che perpetuano la risposta pro–infiammatoria.

Pur non potendo eliminare completamente la formazione e l’assunzione di ‘addetti proinfiammatori’, una modulazione e un riequilibrio dell’apporto di sostanze proinfiammatorie e antinfiammatorie possono essere favoriti da uno stile alimentare che riduca prima di tutto l’apporto di grassi idrogenati, evitando di consumare prodotti che maggiormente li contengono come: alimenti che, in etichetta, riportano ingredienti come oli vegetali idrogenati, oli vegetali parzialmente idrogenati, grassi vegetali idrogenati, grassi vegetali parzialmente idrogenati, margarina, prodotti da forno come brioche, focacce, crostate industriali, torte industriali, patatine e atri snack simili in pacchetto, prodotti di pasticceria legati alla distribuzione di massa (supermercati), dadi da brodo, salatini, barrette, pasta sfoglia, ecc.

Ancora, l’esposizione protratta ad una dieta ad alta energia e povera di nutrienti provoca modificazioni fisiologiche anche senza un significativo cambiamento del peso corporeo.

La qualità e la varietà alimentare della dieta, quindi, giocano un ruolo fondamentale.

Anche il consumo eccessivo di carboidrati ad alto indice glicemico è sconsigliabile. Infatti, in condizione di iperglicemia si verifica una sovrapproduzione di specie reattive dell’ossigeno e dell’azoto ed un aumento della produzione di sottoprodotti della glicazione avanzata. L’iperglicemia innesca un circuito infiammatorio e ipersensibilizza i neuroni sensoriali dotati di sensibilità agli stimoli dolorifici. 

  • Si torna a parlare quindi della Dieta Mediterranea (patrimonio dell’UNESCO dal 2010), che costituisce un modello alimentare che caratterizza non solo uno stile di vita, ma anche una cultura essendo stata segnalata come mezzo per migliorare la salute, la qualità della vita e la stessa ‘life span’ (aspettativa di vita). È necessario quindi mirare ad un regime dietetico basato sull’assunzione di verdure, frutta, legumi, noci e altra frutta secca oleosa, cereali e cibi integrali, insieme appunto all’olio di oliva e al pesce come fonte di grassi, mentre la carne, in particolare quella rossa e i suoi derivati, da consumare in quantità sempre più moderata.

La Dieta Mediterranea è associata a bassa mortalità, contrasta i processi e le malattie cronico-degenerative nonché la sindrome metabolica, esercitando un migliore controllo della glicemia associato ad una bassa resistenza all’insulina.

Essa, insieme ad una costante e almeno moderata attività motoria (da ragionare come una necessità e non come un’opzione) può essere considerata un pool nutrizionale comprendente diversi nutraceutici (componenti bioattive presenti e veicolate dai cibi) in grado di influenzare favorevolmente la salute e quindi la longevità.

 

Articoli simili