Less is more: D...obbiamo ancora prescriverla?
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Less is more: D…obbiamo ancora prescriverla?

Farmacologia

di Marzia Mensurati

 

Per contrastare un’idea di salute che si allontana sempre più dal concetto di ‘assenza di malattia’, e per diffondere una nuova visione della medicina e dell’assistenza sanitaria, da alcuni anni a livello internazionale si è affermato il movimentoLess is more, che si basa sull’applicazione nella Real Life di alcuni principi fondamentali capaci di tutelare la salute e allo stesso tempo garantire la sostenibilità del sistema.

Il movimento si contrappone all’attuale contesto culturale, professionale e sociale, condizionato dall’imperativo more is better. I sistemi sanitari dei paesi industrializzati, infatti, si sono progressivamente ipertrofizzati per offrire un numero sempre maggiore di prestazioni diagnostico-terapeutiche che incrementano la spesa sanitaria e aumentano l’illusoria soddisfazione di cittadini e pazienti, senza tuttavia migliorarne lo stato di salute.

Anche l’utilizzo dell’integrazione di vitamina D merita una riflessione: less is more???

Oltre a essere stata in passato la ‘sorvegliata speciale’, come l’ha definita il direttore generale dell’Aifa, Luca Pani, durante la presentazione del Rapporto Osmed, la vitamina D è stata oggetto di numerosi studi che hanno ridimensionato i presunti benefici legati alla sua supplementazione.

Less is more: D...obbiamo ancora prescriverla?

Il rapporto Osmed 2016 segnala un forte incremento dei consumi della vitamina D ed analoghi, +24,8% rispetto all’anno precedente. Nel 2016 la vitamina D (colecalciferolo) è stata la prima categoria d’uso in termini di consumi, nell’ambito dei farmaci dell’apparato gastrointestinale e metabolismo, raggiungendo il livello di  106,2 DDD/1000 ab die.

Se si osserva la lista dei principi attivi a maggior spesa, il colecalciferolo si trova al 6° posto nel 2016, rispetto al 24° posto occupato nel 2015. Il dato di crescita è vertiginoso tanto da suggerire che la scelta sia da ricondurre a prescrizioni di medicina difensiva più che a una reale esigenza terapeutica.

Studi osservazionali condotti negli Stati Uniti, Canada e Australia hanno evidenziato un parallelo ed intrinseco aumento della richiesta di dosaggio della vitamina D idrossilata nel siero con importante ‘overdiagnosis ed overtreatment’.

Nel Gennaio 2015 la Task Force dei Servizi Preventivi Statunitensi (USPSTF) ha concluso che non vi sono sufficienti ‘prove di efficacia’ per raccomandare lo screening della Vitamina D.  Secondo le linee Guida Nice aggiornate nel 2017 – Vitamina D: Supplement use in specific population group – il test deve essere eseguito solo alla rilevazione di sintomi correlabili a carenza, in soggetti ad alto rischio (osteomalacia, rachitismo, osteoporosi, sindrome da malassorbimento, nefropatia, cadute recenti,  assunzione di farmaci che ne rallentano il metabolismo o ne diminuiscono l’assorbimento).

La crescita impetuosa di richiesta di dosaggio e integrazione sarebbe legata alle indicazioni contenute in diversi studi e alle raccomandazioni degli esperti, che associano l’assunzione di questa sostanza a numerosi benefici in termini di salute. Gli studi scientifici più recenti hanno però definitivamente ridimensionato i presunti benefici legati alla supplementazione di vitamina D.

Secondo una revisione sistematica pubblicata su The Lancet, quasi la metà degli adulti di età superiore ai 50 anni assume integratori a base di vitamina D, come coadiuvante nella prevenzione dell’osteoporosi. I ricercatori hanno però verificato che l’assunzione abituale di vitamina D non ha effetti significativi sulla densità minerale ossea né capacità di prevenire l’osteoporosi. In questi casi quindi non esistono evidenze sufficienti a sostegno dell’assunzione d’integratori di vitamina D negli adulti che non presentano rischi specifici di deficienza di questa vitamina.

Less is more: D...obbiamo ancora prescriverla?Un’altra revisione sistematica, pubblicata sempre su The Lancet – Diabetes and endocrinology, ha analizzato 450 studi, prospettici e interventistici, per determinare se vi fosse una relazione inversa tra la concentrazione di calcidiolo e l’insorgenza di varie patologie non muscolo scheletriche, tra le quali: aumento ponderale, malattie infettive, sclerosi multipla, disordini dell’umore e molti altri. La conclusione contraddice le attese perché la carenza di vitamina D sarebbe un effetto della malattia e non la causa. Sarebbero dunque i processi infiammatori, coinvolti nell’insorgenza della malattia e nel decorso clinico, la causa della riduzione dei livelli di calcidiolo, il che spiega come mai bassi livelli di vitamina D sono riportati in concomitanza a una vasta gamma di disturbi.

Allo stato attuale quindi, le evidenze scientifiche indicano la necessità di un ripensamento critico dell’utilità terapeutica degli integratori di vitamine e minerali, come peraltro sostenuto con forza da numerosi clinici che, in un editoriale sugli Annals of internal medicine, fanno notare che: «anche se sono necessari studi futuri per chiarire l’uso appropriato degli integratori di vitamina D, l’attuale utilizzo generalizzato non è basato su prove concrete che i benefici siano superiori ai rischi».

In conclusione, se è vero che lo stato vitaminico deve essere integrato nei casi indicati per evitare complicanze ossee e muscolari, d’altra parte l’overtreatment, intrinsecamente associato all’overdiagnosis, si correla allo sviluppo di tossicità sistemica, come evidenziato dalla pubblicazione Jama 2017 – Association Between Calcium or Vitamin D Supplementation and Fracture Incidence in Community.Dwelling Older Adults, dal quale è opportuno mettersi a riparo specialmente considerato il contesto di elevatissima prescrizione.

Potremo dire di essere sulla strada giusta quando
saremo riusciti a creare farmaci contro le aspettative.


Anonimo

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