Assistenza sanitaria e Stato sociale
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Assistenza sanitaria e Stato sociale

Sua Sanità Pubblica

di Carlo De Luca

 

(parte II)

La stagione dell’efficienza

Il contesto che aveva prodotto la stagione dei diritti entra in crisi quando la possibilità di spesa (pubblica) si riduce drammaticamente per un rallentamento della crescita economica che inizia con la crisi petrolifera del 1973 ed accelera negli anni successivi. È così che negli anni ‘80 emerge un nuovo paradigma: il neoliberismo dello Stato minimo. Reagan e la Thatcher impongono al mondo una politica di deregulation dell’economia, con l’obiettivo dichiarato di ridimensionare l’intervento dello Stato e di ridurre le regole al minimo. L’assunzione di base era che il mercato avrebbe determinato un’efficiente allocazione delle risorse riducendo così anche i costi.

Cessa così la fase di crescita dello Stato sociale con una tendenza al ridimensionamento che in qualche Paese, come la Gran Bretagna, ha avuto maggiore espressività coinvolgendo in primo luogo proprio la sanità. Gli effetti di questo tipo di politica sono stati differenti a seconda che si trattasse di Paesi emergenti, che ancora mancavano di una struttura assistenziale sviluppata, o di Paesi a democrazia liberale, nei quali invece lo Stato sociale si trovava già ad uno stadio avanzato.

 

Gli organismi internazionali (Fondo monetario internazionale e Organizzazione mondiale per il commercio) imponevano ai Paesi emergenti riforme strutturali che implicavano il contenimento della spesa pubblica, la privatizzazione dei servizi, l’introduzione delle assicurazioni private. Laddove le formule neo-liberiste sono state applicate, si è prodotto il fenomeno di una spesa sanitaria che gravava direttamente sulle famiglie in una misura che risultava iniqua perché a discapito degli strati più vulnerabili della popolazione.

Gli effetti equitativi delle politiche sanitarie possono essere inquadrati da diversi punti di vista. Uno dei più importanti è costituito dalla ricaduta sulla spesa familiare in termini di:

  1. Impoverimento – Aumento del numero di famiglie che sono costrette a scendere sotto la soglia di povertà a causa della necessità di sostenere direttamente alcune spese sanitarie.
  2. Spesa catastrofica – Pagamento diretto di prestazioni per un valore superiore al  40% del reddito familiare non destinato al consumo di alimenti (in Italia tale reddito è misurato come CTP, capacity to pay, ovvero come differenza tra la spesa totale sostenuta e quella spesa destinata alla sussistenza e identificata con la soglia di povertà assoluta).
  3. Rinuncia – Ovvero il fenomeno ancora più ampio delle famiglie che non volendo andare incontro ad impoverimento e spesa catastrofica rinunciano ai servizi sanitari pur avendone bisogno.

 

Nell’anno 2008, in Ghana e Tanzania, la spesa sanitaria privata ha ridotto in povertà rispettivamente 350.000 persone (1,59% della popolazione) e 137.000 persone (0,37% della popolazione). Né le cose sono andate meglio in quei Paesi nei quali pure la crescita economica si è mantenuta sostenuta per lunghi anni. I sistemi sanitari sono stati orientati su un mix pubblico-privato nel quale lo Stato interviene solo a garantire le fasce di popolazione meno abbienti attraverso la copertura assicurativa (Messico) o l’accesso gratuito (Brasile, Tailandia). Ma in Sudafrica, uno dei Paesi nei quali maggiore è stata la crescita economica, nell’anno 2008 ben 215.000 persone (0,045% della popolazione) subivano l’impoverimento conseguente al pagamento diretto delle spese sanitarie. In Cina, un altro Paese dallo sviluppo economico prorompente, nonostante una recente riforma che prevede un maggior intervento pubblico, non si è riusciti a contenere il fenomeno della spesa catastrofica.

 

Interventi ‘strutturali’ finalizzati al contenimento del debito pubblico, analoghi a quelli applicati nei Paesi emergenti, sono stati implementati anche in Europa. In alcuni Paesi quando è esplosa la crisi attuale, in altri anche in precedenza. In Grecia, dove già la spesa sanitaria privata raggiungeva una quota pari al 40%, i tagli operati nel corso della crisi hanno finito per smantellare ulteriormente la componente pubblica. In Spagna una norma approvata nel 2012 esclude dall’assistenza gratuita tutti gli immigrati irregolari – ad eccezione dei casi urgenti – anche se la sua applicazione è fortemente contrastata. La Gran Bretagna rappresenta un caso particolare perché è l’unica democrazia occidentale nella quale si è registrato un arretramento sostanziale dello Stato sociale proprio sul terreno dell’assistenza sanitaria. La riforma realizzata nel 1991 dalla Thatcher prevedeva la separazione della funzione di committenza da quella dell’erogazione dei servizi. Le autorità sanitarie locali e le associazioni dei medici di famiglia diventavano acquirenti delle prestazioni offerte da fornitori – aziende ospedaliere e territoriali – cui veniva riconosciuta un’autonomia gestionale assoluta. In questo modo si immettevano meccanismi di competizione sia tra gli acquirenti che tra gli erogatori. Ci si attendeva una riduzione dei costi che non si verificò con la conseguenza che il sistema sanitario britannico si trovò ad essere drammaticamente sottofinanziato. Nel 1999 il governo laburista di Blair dovette incrementare del 40% i fondi destinati alla sanità.

In Italia, le riforme che si sono succedute dopo l’introduzione del sistema universalistico (1978), hanno avuto come obiettivo il contenimento della spesa sanitaria e l’efficienza dei servizi. Minore attenzione è stata dedicata alle conseguenze in termini di equità di accesso alle cure, tanto che l’area dell’iniquità era già di grande ampiezza prima ancora che emergesse l’attuale crisi economica. Nell’anno 2009, l’1,4% delle famiglie (338.052 nuclei) erano state costrette a scendere sotto la soglia di povertà relativa per la necessità di acquistare prestazioni sanitarie. Il 4,2% delle famiglie (991.958 nuclei) avevano sostenuto spese sanitarie catastrofiche. Nell’11,1% delle famiglie (2.636.471 nuclei) almeno un componente aveva rinunciato al pagamento diretto di prestazioni sanitarie non potendo o non volendo affrontarne le conseguenze economiche. Nel biennio successivo gli stessi dati mostrano un generale ulteriore ampliamento di queste forme di iniquità. Il federalismo fiscale, almeno dalle prime analisi, non sembra aver inciso significativamente sul fenomeno.

In Italia, oltretutto, vi sono tuttora importanti iniquità, da ulteriori punti di vista. Anche nel contesto di sistemi sanitari di tipo universalistico, si ammette che uno stato di svantaggio sociale, economico e culturale si traduce in un più basso livello di salute in quanto da una parte condiziona una maggiore esposizione ai fattori di rischio delle malattie e dall’altro determina un minore uso ed accesso alle risorse sanitarie. Sulla base di questa assunzione, certo controversa ma fondata su evidenze empiriche e sperimentali, le disuguaglianze nei fattori socio-economici determinanti lo stato di salute sono generalmente avvertite come una delle forme più intollerabili di ingiustizia. Da questo punto di vista occorre rilevare che in Italia, come nel resto delle democrazie avanzate, il miglioramento della qualità di vita che si è realizzato nel secondo dopoguerra non ha inciso sulla disuguaglianze di salute legate ai fattori socio-economici.

Così oggi le differenze in termini di speranza di vita alla nascita mostrano un’ampia disuguaglianza territoriale (Fig. 1 e 2). Al Nord e al Centro si vive più a lungo e in migliori condizioni di salute rispetto al Sud.

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Profonde anche le disuguaglianze socio-economiche che emergono da uno dei pochi studi condotti in Italia su tale argomento (Fig. 3 e 4). In un campione di popolazione si è potuto verificare che il rischio di morte è significativamente aumentato nelle persone con grado di istruzione inferiore (maschi e femmine), nei disoccupati, lavoratori manuali e autonomi (maschi), tra gli individui con risorse economiche scarse o insufficienti (maschi e femmine).

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