Ritratto del prof. Parrozzani
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Quella ferita al cuore… di Tivoli

di Sergio Cicia

Il cuore è un organo unico, vitale e instancabile, che lavora 24 ore al giorno durante l’intera vita di un individuo. Le ferite del cuore rimangono tra le più impegnative nella chirurgia del trauma e il loro trattamento spesso richiede un intervento chirurgico immediato, una eccellente tecnica e un successivo ottimale postoperatorio. Le prime descrizioni di ferite penetranti del torace possono essere trovate nel Papiro di Edwin Smith risalente al 3000 a.C. Gli Egiziani, del resto, furono anche tra i primi a riconoscerne la funzione di ‘pompa’. La storia del trattamento delle ferite invece, in accordo con Beck, può essere suddivisa in tre periodi storici. Nel primo, detto del misticismoche arriva fino al XVII° secolo – le lesioni del cuore, pur conosciute, erano considerate intrattabili e assolutamente fatali. Successivamente, nel periodo così detto di osservazione e sperimentazione, che arriva alla fine del XIX° secolo, si osservano i primi tentativi di riparazione con sutura. Infine, dall’inizio del secolo successivo (periodo moderno), sono state sviluppate molte delle tecniche chirurgiche che oggi conosciamo per il trattamento definitivo delle lesioni cardiache.

Le ferite del cuore hanno da sempre ispirato poeti, scrittori e musicisti. Omero, nel 950 a.C. circa, fu il primo autore a narrare di una ferita cardiaca: nell’Iliade (libro XIII versi 442-444) egli descrive di come il greco Idomeneo, aiutato da Poseidone sceso in guerra per aiutare gli Achei, uccise il troiano Alcatoo con una lancia nel cuore, guidata dal Dio contro il petto dell’avversario. Alcatoo, caduto a terra con fragore, morì dopo una breve agonia. Omero si sofferma nel descrivere il macabro particolare della lancia di Idomeneo che, infissa nel cuore del troiano, palpita all’unisono coi residui battiti dell’organo vitale.

Ovidio, Plinio e Galeno consideravano tutte le ferite al cuore fatali, tesi sostenuta più tardi anche da Ippocrate, padre della moderna Medicina. Aristotile (384-322 a. C) scrisse:

Il cuore è l’unico tra i visceri, e quindi l’unica parte del corpo, che non può tollerare qualunque seria affezione.

Aulo Cornelio Celso (55 a.C. – 7 d.C.) per primo invece descrisse la presentazione clinica dello shock associata alle lesioni cardiache nel De Medicina:

Quando il cuore è ferito molto sangue viene perso, il polso si indebolisce, il pallore diventa estremo, il corpo è coperto da sudore freddo e maleodorante, le estremità diventano fredde e presto arriva la morte.

Gli insegnamenti di Ippocrate, Aristotile (Ipse dixit) e Galeno, secondo i quali tutte le ferite al cuore erano fatali, rimasero intoccati per circa 20 secoli, fino a quando, nel XVII° secolo, la forza di tali concetti fu messa in discussione da Hollerius, chirurgo francese, che fu il primo ad avanzare l’idea che le ferite al cuore potevano guarire e che non erano necessariamente fatali.

Successivamente Wolf, nel 1642, descrisse una ferita al cuore guarita. La sua osservazione rimase dimenticata per oltre un secolo fino a quando Jean Baptiste de Sénac, medico di Luigi XV°, arrivò alle stesse conclusioni. Giovanni Battista Morgagni, insigne professore di anatomia a Padova, nel 1761 fu il primo a riconoscere il tamponamento cardiaco da lesione di una arteria coronarica, descrivendone gli effetti della compressione sul cuore dovuta all’emorragia nel pericardio che ne riduceva i movimenti. Ma è nel XIX° secolo che si è avuta la svolta nel trattamento delle ferite del cuore. Francisco Romero e Dominique Jean Larrey furono i primi chirurghi a trattare un versamento pleurico, anche se singolarmente ebbero diversi destini: Francisco Romero rimase un oscuro chirurgo di Barcellona a cui la facoltà di Medicina di Parigi negò il permesso di pubblicare nel suo Bollettino il contributo miliare che lui aveva presentato al ‘meeting’, mentre Dominique Jean Larrey, chirurgo capo dell’Armata Imperiale (autore nel marzo 1810 di una pericardiotomia su un giovane fante di 30 anni, che aveva tentato il suicidio con una pugnalata al torace) ebbe un notevole riconoscimento dal mondo medico e per i suoi significativi contributi alla chirurgia dei traumi fu nominato barone da Napoleone (fu il primo a descrivere l’approccio e la tecnica chirurgica nel trattamento dei versamenti pericardici). Con l’introduzione dell’anestesia (William Morton nel 1846) e dell’antisepsi (prima pubblicazione di Joseph Lister nel 1867), nella seconda metà dell’Ottocento, si erano realizzati grandi progressi in tutti i campi della chirurgia della cavità addominale, del torace, del cranio e degli arti, eppure il cuore era ancora considerato dai chirurghi come una parte del corpo da evitare. In quel fecondo periodo furono inventati nuovi strumenti e furono introdotte procedure innovative, molte delle quali utilizzate ancora oggi. Tuttavia vi era una diffusa convinzione, sostenuta anche da James Paget di Londra e da Theodor Billroth di Vienna – le massime autorità accademiche della chirurgia dell’epoca – che la natura avesse posto il cuore oltre i limiti della chirurgia. In particolare, Theodor Billroth (1829-1894), professore di Chirurgia a Vienna e pioniere della moderna chirurgia (eseguì con successo la prima gastrectomia parziale per carcinoma dello stomaco nel 1881), bollava con parole di fuoco i primi tentativi di trattare tali ferite, condannando sia la pericardio centesi, sia ogni altro approccio chirurgico alle ferite cardiache:

La paracentesi del pericardio è un intervento che, nella mia opinione, si avvicina molto a quel genere di interventi che alcuni chirurghi definirebbero una prostituzione dell’arte chirurgica ed altre pazzie.

e ancora:

Un chirurgo che prova a suturare una ferita del cuore dovrebbe perdere il rispetto dei suoi colleghi.

Gli faceva eco da Londra, Stephen Paget (1814-1899):

La chirurgia del cuore ha probabilmente raggiunto i limiti posti dalla natura a tutti i tipi di chirurgia; nessun metodo nuovo e nessuna nuova scoperta potranno superare le naturali difficoltà a trattare le ferite di un cuore. È vero che la sutura del cuore è stata vagamente proposta come una procedura possibile ed è stata fatta negli animali, ma non ho mai trovato che è stata eseguita in pratica.

Solo nella seconda metà del XIX° secolo i chirurghi cominciarono a superare tali convinzioni e il successo dell’intervento di Ludwig Rehn, il 9 settembre 1896, pose fine a questa credenza, dando vita alla cardiochirurgia, il cui inizio è fatto risalire proprio a quel giorno. In realtà la prima sutura del cuore umano fu eseguita nel 1895 dal chirurgo norvegese Ansel Cappelen (ma il paziente, un giovane di 24 anni pugnalato all’emitorace sinistro, era morto 2 giorni dopo per complicanze). Il successo, invece, arrise a Rehn, di Francoforte sul Meno, il cui paziente, un ventiduenne pugnalato al torace durante una rissa due giorni prima, dopo l’intervento eseguito come ultima spiaggia, guarì e sopravvisse a lungo, come riportato dalla Sèmaine Mèdicale (sutura del ventricolo destro per ferita da pugnale operata mediante toracotomia sinistra al quinto spazio). Rehn comunicò il suo intervento ‘in modo apologetico’ al Congresso tedesco di Chirurgia, in Berlino, il 22 aprile 1897. Soltanto tre giorni prima veniva eseguito a Roma dal dott. Parrozzani un intervento di riparazione sul cuore, da lui descritto successivamente come ‘sutura ventricolare sinistra’. Inoltre, sempre a Roma, l’8 giugno 1896, un similare intervento, in questo caso sul ventricolo destro, fu portato a termine dal dott. Guido Farina, ‘sostituto primario chirurgo’ dell’ospedale della Consolazione (situato ai piedi del Campidoglio, attualmente sede del comando della Polizia di Roma). Nonostante fosse stato tecnicamente perfetto, il paziente morì in sesta giornata post-operatoria per ‘miocardite atrofica e anemia’.

Ospedale di Tivoli

La missione dell’ospedale di Tivoli è storicamente votata alla chirurgia d’urgenza ed è sicuramente singolare la relazione con interventi d’urgenza particolarmente difficili come le ferite al cuore. È una lunga tradizione che unisce la chirurgia dell’ospedale alla cardiochirurgia, iniziata alla fine del XIX° secolo con Antonio Parrozzani (Isola del Gran Sasso, 1870 – Tivoli, 1930). Questo grande medico fu primario chirurgo a Tivoli dal 1904 fino alla sua morte e, come detto, è stato primo in Italia, e secondo al mondo, ad operare con successo una ferita del ventricolo sinistro. In assoluto, Parrozzani fu il primo ad operare con successo sul ventricolo sinistro all’età di 27 anni.

Ritratto del prof. Parrozzani, situato nella Direzione Sanitaria dell’ospedale di Tivoli. Copia di quello eseguito dal pittore tiburtino Edoardo Tani, esposto nell’Accademia di Storia dell’Arte Sanitaria all’interno dell’Ospedale Santo Spirito in Roma.

Anche il dottor Parrozzani, come Farina, era ‘sostituto primario chirurgo’ al pronto soccorso della Consolazione, quando dovette intervenire il 19 aprile 1897, suturando un’ampia lacerazione traumatica del ventricolo sinistro su un facchino romano trentaduenne – Barboni Adolfo – colpito nella notte da tre pugnalate. Farina, pur senza la risonanza mediatica del dott. Rehn, era riuscito a dare notizie internazionali del suo intervento attraverso il Zentralblatt. Parrozzani invece presentò i suoi due casi all’Accademia Medica di Roma rendendone edotti celebri medici romani dell’epoca: Baccelli, Bastianelli, Postempsky, Marchiafava, Luciani, Bignami, Mingazzini ed altri. Ma il resoconto della sua brillante esperienza non poté superare i confini della giovane Italia e, forse, neanche quelli della stessa Roma. Se l’avesse pubblicata nella lingua scientifica allora dominate, il tedesco (o anche in inglese), dichiarandone urbi et orbi l’opportunità, l’efficacia, la fattibilità, la riproducibilità, e magari dimostrandone anche il basso ‘costo aziendale’ (operò infatti in anestesia locale), certo ancor oggi il suo nome verrebbe ricordato con onore paritario agli altri da tutta la comunità scientifica. Lo stesso Parrozzani descrive un altro intervento del genere da lui eseguito subito dopo il primo, il 3 giugno dello stesso anno, sempre all’ospedale della Consolazione. Questa volta, però, si trattava di una donna di ‘debolissima costituzione’, luetica e con ricca anamnesi patologica. Anche qui Parrozzani operò immediatamente su sospetto clinico, senza anestesia, applicando la stessa tecnica, ma in seconda giornata la donna morì. Entrambi i casi vennero presentati nel 1897 sul Bollettino della Reale Accademia Medica di Roma.

La fama di Parrozzani cominciò a crescere enormemente e nel 1900, a riconoscimento dei suoi prestigiosi meriti scientifici, fu nominato Cavaliere della Corona d’Italia. Continuò a pubblicare casi interessanti e a sperimentare nuove tecniche operatorie, vincendo diversi concorsi Nel 1902 ottenne la libera docenza in Anatomia Chirurgica. Nel 1904 divenne Direttore e Primario Chirurgo dell’ospedale di Tivoli, dove continuò infaticabilmente a lavorare fino alla sera del 2 novembre del 1930, quando, al termine dell’ennesima intensa giornata lavorativa, venne ucciso poco fuori il nosocomio con diversi colpi di pistola. L’aggressore, tale F. Mancini, catturato quasi subito, era un suo ex paziente operato dal chirurgo dieci anni prima per un’ernia inguinale. L’omicida aveva maturato un notevole risentimento nei confronti del medico perché a suo dire “…era stato la causa di tutti i suoi mali, perché sul suo corpo egli aveva voluto fare un esperimento cui aveva fatto assistere una folla di studenti di medicina, medici, tre frati e tre infermieri…” L’operazione gli avrebbe provocato una ‘semiimpotenza’ sessuale dovuta alla ‘recisione dei nervetti dell’erezione’, privandolo, come letteralmente accusò, della ‘primavera della vita’ e della ‘possibilità di possedere una vergine’, cosa che non venne mai appurata. La Corte d’Assise gli comminò l’ergastolo, sentenza riformata in seguito a Viterbo per la concessione di attenuanti generiche. Il processo diventò celebre non solo per la personalità del Parrozzani e la tipologia dell’accusa, ma anche perché fu l’occasione per una ‘possente e fascinosa arringa’ del celebre avvocato e criminologo Bruno Cassinelli, che ebbe modo così di innalzare brillantemente la sua ben nota oratoria a livello di questa ‘follia lucida con volontà esercitata da un motivo’.

Miglior fortuna hanno avuto gli altri due chirurghi che successivamente hanno affrontato con successo rispettivamente una lesione della vena cava superiore intrapericardica e del ventricolo destro, il Prof. Domenico Giubilei ed il sottoscritto. Scrive Giubilei nel libro La medicina raccontata:

Alle ore 14, al termine di un normale seduta operatoria, arrivò direttamente dal Pronto Soccorso un giovane ferito da un colpo di pistola al torace, moribondo. Portato velocemente sul letto operatorio, senza polso e senza pressione, cianotico e con difficoltà al punto che riusciva ad accennare una specie di respiro, assolutamente insufficiente con sospetto ‘tamponamento cardiaco’. Una sola incisione atipica, lungo il tratto cartilagineo parasternale, dalla clavicola sinistra all’arcata costale, si aprì il torace e si evidenziò un cuore enorme, che occupava tutta la cavità toracica, comprimendo completamente i polmoni. Il pericardio conteneva litri di sangue, impedendo al cuore stesso di pulsare. Una incisione del pericardio provocò una immediata inondazione del campo operatorio che non dava la possibilità di avere un orientamento, pur avendo due aspiratori in funzione. Introdussi un dito nel pozzo di sangue, e riuscii a procurare fortunatamente la occlusione del foro di immissione del sangue, e potei notare che il cuore, fermo, accennava a movimenti vermicolari; due punti applicati velocemente sul foro, un massaggio cardiaco prolungato, il cuore riprendeva lentamente il suo ritmo. Il paziente fu dimesso, perfettamente ristabilito in pochissimi giorni.

Infine, il caso personale.

Il 24 luglio 1997 un giovane paziente fu portato d’urgenza al Pronto Soccorso dell’ospedale di Tivoli in seguito ad una riferita ferita da taglio penetrante in sede parasternale sinistra a livello del capezzolo. Dato il gravissimo stato di shock (emorragico) decisi di intervenire d’urgenza, ma a differenza dei miei due illustri predecessori, non eseguii una toracotomia sinistra, ma una sternotomia mediana. Da poco tornato dagli Stati Uniti avevo imparato al THI di Houston questo tipo d’incisione, di routine per tutti gli interventi sul cuore. Dunque incisione cutanea mediana dal giugulo all’apofisi xifoide con sternotomia mediana: evidenza di emopericardio con infarcimento emorragico dei tessuti molli. Apertura del pericardio con evacuazione di una grossolana raccolta di sangue in parte coagulato. Il cuore, quasi fermo, ricominciò a battere vigorosamente. Dopo lussazione del cuore si reperta una ferita da punta e taglio del ventricolo di circa 1 cm. Messo il dito sulla ferita, suturai la stessa con punti staccati ottenendo una buona emostasi. Apertura della pleura e posizionamento di drenaggio pleurico ed altro nel mediastino. Chiusura dello sterno con punti staccati d’acciaio a figura di 8. Dopo l’intervento il paziente viene trasferito in T.I. e il 13 agosto fu dimesso, guarito. Il paziente tuttora gode di buona saluta e lavora per il SSR. Rivisto a distanza di circa 20 anni, mi ha offerto un caffè e mi ha ringraziato ancora per averlo guarito per la ferita sul cuore. Ne valeva la pena.

Il cuore, dicono, è l’ultimo a morire:
certo è il primo ad essere ferito.


Arturo Graf

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